Regia di Martin Turk vedi scheda film
L'estate dei quindici anni di Klemen scorre serena e tutta incentrata sul tennis, sport nel quale sembra eccellere e nel quale, accanto al ferramenta e allenatore a tempo perso Miro, ad aiutarlo è il fratello maggiore Peter, che ha diciotto anni e lui reputa la sua guida. Figlio di madre single, Klemen ha anche due amici, coetanei, che vede ogni giorno: Gregor e Jana. Quest'ultima, in realtà, gli fa la corte con l'inesperienza e gli impacci che quell'età comporta, ma lui sembra non calcolarla, continuando ad avere occhi solo per quel fratello maggiore e preferendo azzuffarsi nel grano con lui piuttosto che raccogliere gli input che lei gli manda.
Ma Peter inizia presto ad esser meno presente o a chiudersi in camera per parlare al telefono; e di lì a poco, l'arcano di questi suoi comportamenti inediti si rivela sotto le sembianze della bella Sonja: s'è fatto la ragazza, e Klemen vede il mondo cadergli addosso. Inizia a detestarla ma al tempo stesso la spia e se ne sente attratto, cercando di escogitare una maniera per allontanarla così da tornare ad avere Peter tutto per sé.
Accanto a Klemen, Peter, Sonja, Jana e qualche adulto che gli gravita attorno, Don't Forget To Breathe, terzo lungometraggio di Martin Turk, ha un protagonista in più: il paesaggio. Ma il regista non riesce a contenerlo, tanto che gli altri personaggi, e la storia con loro, finiscono in secondo piano rischiando di trasformare un dramma di formazione in un documentario piuttosto ripetitivo sulla Carniola Bianca. Tale zona rurale della Slovenia, infatti, è al centro di ogni inquadratura, con il direttore della fotografia Radislav Jovanov intento a riprenderla e ad indugiare soprattutto sulle riprese dal basso: in primis sui riflessi dell'acqua, talvolta sulle distese d'erba. Anche troppo spesso, però, tanto da far risultare il racconto diluito e poco incisivo.
Nel contesto di una storia di per sé fatta di conflitti interiori e piccoli assestamenti che hanno bisogno di prendersi il tempo necessario ma ne sprecano sin troppo, preso atto della presenza di una discreta costruzione dei personaggi e anche di una colonna sonora ambient folk con venature post rock (di Teho Teardo) tutto sommato piacevole e coerente, diventa plausibile sospettare che il problema stia nelle scelte fatte a monte, e che, probabilmente, una sforbiciata di un buon quarto d'ora di riprese in stile National Geographic avrebbe potuto giovare - e non poco - alla resa complessiva di un film affatto brutto, ma che si piace troppo.
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