Regia di Leigh Whannell vedi scheda film
Ulteriore conferma del fiuto di Jason Blum e della sua Blumhouse nel creare un horror capace di arrivare senza troppi compromessi al cuore delle maggiori paure contemporanee (nello specifico la violenza sulle donne), con un budget di soli 7 milioni di dollari e un incasso di oltre 124 (depotenziato però dall’arrivo della pandemia), questa versione contemporanea de L’uomo invisibile viene affidata al regista canadese Leight Whannell, già autore di Upgrade e co-creatore insieme al regista James Wan della saga di Saw e, successivamente, sceneggiatore anche di Insidiuos.
Più ancora che del romanzo di H.G. Wells o della sua omonima versione del 1933 questo nuovo adattamento si presta maggiormente come a una nuova versione del sottovalutato L’uomo senza Ombra di Paul Verhoeven, che già nel 2000 andava in una direzione abbastanza simile, ma qui la protagonista e fin dall’inizio inequivocabilmente una donna con (soprattutto) le sue paure e afflizioni dovute alle violenze domestiche perpretate dal suo compagno.
Il film parte subito in media res con una fuga tesissima dalla prigionia in cui la protagonista è stata relegata per poi, dopo un solo brevissimo momento di serenità, precipitare nuovamente in una spirale di terrore e paranoia, in un gioco del gatto con il topo che dalla paura di essere osservati regredisce fino all’aggressione e all’omicidio in una parabola sempre più folle e violenta.
La prima metà della pellicola è essenziale e priva di sbavature, principalmente un ”home invasion” atipico, rovesciandone i canoni di una violazione dell’intimità che invece che da fuori si annida, nascosta, al suo interno ma con una sapiente quanto inquietante esposizione degli spazi e delle geometrie, di mura, angoli e anfratti che invece che garantirne la sicurezza finiscono per trasformarsi in una prigione (anche dell’animo) e che, nella sua rappresentazione fredda e geometrica degli spazi mi ha un po ricordato la casa ultra-moderna di Parassite (anche se in quel caso gli orrori nella casa, per quanto complementari, erano di altro genere).
L’uomo invisibile è per lunga parte della pellicola una presenza nascosta tanto da dubitare della sua reale esistenza e anche quando finalmente viene mostrato lo vediamo interamente coperto dalla tuta, senza nemmeno un volto definito in modo da renderlo il più disumano possibile, una figura stilizzata senza volto e identità più simile all’esternazione di un concetto (appunto i soprusi psicologici e la violenza sulla donne) che non un semplice individuo.
E infatti qualsiasi uomo può nascondersi dietro a quel cappuccio - e sottolineo “nascondersi” - sicuro comé di rimanere impunito per le sue azioni, come “invisibile” a una società colpevolmente compiacente e/o troppo tollerante verso questo genere di crimini.
Ma il tema de L’Uomo Invisibile, nel suo essere coperto da una tuta costituita da migliaia di minuscole telecamere, e anche quello di un film sulla privacy o meglio sulla sua mancanza o dell’uso sbagliato di cui, spesso, se ne fa uso.
Di migliaia di occhi meccanici che spiano la nostra vita e la tengono costantemente sotto controllo.
Un abuso di cui ne fa farlo largo uso lo stesso Adrian Griffin, nella sua casa, per tenere Cecilia al guinzaglio ma anche le stesse telecamere che, non riescendo a rivelare l’uomo invisibile, gli permettono di agire indisturbato e di abusare incontrollato delle sue capacità.
Come anche le stesse telecamere in casa di Griffin, quelle stesse usate per controllarla, che eludendole permettono a Cecilia di liberarsi finalmente dall’incubo, sfruttandole a suo favore anche come alibi.
Una protagonista (Cecilia) che ha il volto della performante Elisabeth Moss, direttamente dal successo televisivo di The Handmaid’s Tale dove era già vittima di persecuzioni istituzionalizzate (ed era presente anche in Noi - Us, ultima pellicola di Jordan Peele), capace di demandare empaticamente allo spettatore il sentimento di angoscia e disperazione di una situazione che assume via via connotazioni sempre più tragiche e inquietanti.
Fanno parte del cast anche Aldis Hodge, Oliver Jackson-Cohen, Storm Reid e Harriet Dyer.
Un horror fin troppo attuale, quindi, che parla di abuso e della paranoia che ne segue perché il sotto testo della pellicola, pur nella sua specificità di genere, in questi tempi di Me Too e di rivalsa femminile è propedeutico nel suo cercare di svelare e di rendere “visibile” quel sottobosco di noncuranza, insensibilità e/o condiscendenza di una parte delle istituzioni e della società civile che sottostimandone i pericoli e/o la potenziale minaccia cerca ancora di rendere “invisibile” il problema.
VOTO: 7
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