Espandi menu
cerca
L'uomo invisibile

Regia di Leigh Whannell vedi scheda film

Recensioni

L'autore

mck

mck

Iscritto dal 15 agosto 2011 Vai al suo profilo
  • Seguaci 207
  • Post 137
  • Recensioni 1157
  • Playlist 323
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi
Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'uomo invisibile

di mck
6 stelle

Leigh Whannell organizza una folta schiera di stereotipi, cliché e dispositivi tanto narratologici quanto tecnico-artistici facendo nascere una discreta, a tratti buona serie B che, travestendosi da serie A, perde alcuni connotati duri e puri senza acquisirne di nuovi e ulteriori relativi ad un discorso politico-sociale. E poi: Elisabeth Moss.

 

 

BlumHouse, e uno, e due, ovvero: Hunting the Invisible Woman.

 


“A parte” (tra virgolette perché ovviamente non la si può mettere da parte manco per sbaglio) Elisabeth Moss, il momento (rivelato, creato e composto alla fine di un lento movimento di macchina shyamalanico ad arco su asse orizzontale lanciato ad indagare il set e a enunciare il tentativo di presenza di un narratore onnisciente in lotta a rilevare la presenza dell’invisibile: e cosa è, questo atto esplorativo, creativo e “manipolativo”, se non il cinema?) migliore del film, che, pur tra perle involontariamente comiche…

- INIZIO MINI-SPOILER-
[e i cachinni sguaiati alla vista della fessa espressione facciale da fesso dell’uomo invisibile (Oliver Jackson-Cohen) al suo “primo” apparire (con, nello sguardo, quella fissità - e/o fessità - tipica dell’ottuso) ancora riecheggiano ben oltre i titoli di coda… Mentre una cosa, anzi due, che dovrebbe(ro) far veramente paura: l'invenzione (la tuta multiplocchiuta, l'Argus totus oculeus, l'obiettivo ch'è tanto duplice sostantivo - che agisce e subisce l'azione del guardare - quanto aggettivo, che non solo ci vede, scruta ed osserva, ma - restituendocelo, attraverso il corpo/involucro elevato alla potenza di ocello, quello sguardo - ci risputa addosso, c'inonda e ci proietta un'immagine distorta della realtà) ora è in mano al governo U.S.A., e anche a qualcun altro...],
- FINE MINI-SPOILER-

...contiene delle belle (forti) e riuscite situazioni…

- INIZIO MINI-SPOILER-
[una svolta narrativa brutale qual’è l’escissione giugulare (che avrà la propria, parziale “suturazione” nel thebraveone-neiljordanesco finale) e due colpi di scena (che, proprio perché li ho predetti, definisco) prevedibili quali il theprestigesco germano e la (2ª) suit di Cechov che, se c’è, dovrà ben ricomparire sparendo - transitivo forzato - chi l’indossa...],
- FINE MINI-SPOILER-,

...è questo fotogramma...     

 

E non vuol essere un complimento.
Cioè, l’immagine è splendida (denota bellezza e connota paura), ma che sia, “a parte” Elisabeth Moss etc… etc…, il momento migliore del film… beh, ciò non può essere una qualità positiva.
È merito degli scenografi? Del direttore della fotografia? Del regista?
Non lo so, ma questo frame che sembra come appare un’istantanea di un’ambientazione o di un lacerto edwardhopperiano reso astratto e para/semi-concettuale, questo particolare lacerto frammentato davidhockneyano impallidito e incenerito al limite della desaturazione come se un architetto contemporaneo (più lei che lui, direi) di uno studio artistico di Busto Garolfo o di City Life avesse deciso di virarlo secondo una sua propria casalingo-vogherica o cittàstudica pallette cromatica demenziale, beh, è - ripeto - splendido.

E penso anche a Stuart Davis, Georgia O'Keeffe, Charles Sheeler, etc...
Tre pareti di due colori, una delle quali, quella in primo/medio piano, è spezzata da un vano di porta senza porta (oltre al quale l’altra parete spunta andando a costituire lo sfondo e il punto focale più distante), ma con una spalletta visibile (l’altra stipite/piedritto rimane nascosto dalla prospettiva creata dal punto di ripresa), un pavimento in parquet (il soffitto rimane fuori campo), due porzioni di quadri, uno per ogni sezione della parete spezzata, un interruttore a sfioro, un mobiletto coperto da un sottile e leggero telo in plastica trasparente.

 


Per la sua opera terza dietro alla macchina da presa Leigh Whannell (“UpGrade”), traendo dall’immenso archivio del Pubblico Dominio andando a spulciare sotto alla voce Herbert George Wells (deceduto nel 1946 e liberamente accessibile dal 2017), “aggiorna” il nero profondo ed amaro del capo d’opera del 1897 e, dimenticandosi (scrivendo come sempre di suo pugno la scenggiatura) tanto dell’originale letterario quanto, in parte, del primo magnifico adattamento di James Whale del ‘33 (e la deriva seriamente parodica che fece prendere John Carpenter alla storia nel ‘92), come pur’anche della versione (forse) più psico-umanamente fedele al testo di partenza, ovvero quella di Paul Verhoeven del '00, sposta infine il PdV dal genio arrovellato dai propri demoni (qui estremizzati ai tempi del #MeToo, tant’è ch’è giustamente più che sufficiente il solo porre in essere lo sfondamento di un finestrino senz’architettare alcun’altra sorta di sforzo per dare un back-ground più che credibile alle accuse mosse dalla consorte in fuga al marito violento: non occorre - come non dovrebbe - altro, ma poi altro arriva e giunge) egoisti, egocentrici e possessivi animati da radicali pulsioni edonistiche al corpo (assente in Wells e presente da Whale in poi) del contraltare femmineo “amato” e disamante (che Elisabeth Moss incarna alla perfezione, come suo solito), e nel farlo organizza una folta schiera di stereotipi, cliché e dispositivi tanto narratologici quanto tecnico-artistici: una discreta, a tratti buona serie B che, travestendosi (un investimento di 7 milioni di dollari ben spesi, ad oggi tramutatosi in un ricavo lordo di 125...) da serie A, perde alcuni connotati duri e puri senza acquisirne di nuovi e ulteriori relativi ad un discorso politico-sociale.

 


Completano il cast: Aldis Hodge (“City on a Hill”), Harriet Dyer, Storm Reid (“Euphoria”), Michael Dorman (“For All ManKind”), Benedict Hardie (“UpGrade”)…
Fotografia e montaggio di, rispettivamente (entrambi già al lavoro col regista per “UpGrade”), Stefan Duscio e Andy Canny. Musiche (martellanti e zimmeriani - due termini che sono sinonimi - archi, percussioni e fiati mainstreamici quando servono) di Benjamin Wallfisch (“Blade Runner 2049”, “It”).
Production Design: Alex Holmes. Art Direction: Alice Lanagan. Set Decoration: Katie Sharrock.
Supervisione agli effetti speciali visivi e digitali: Jonathan Dearing.
Produce Jason Blum & C. e distribuisce Universal.

 


Sicuramente, ma solo per certi versi (alcuni dei quali esulano dall’arte registica: e sì, sto certo parlando ancora della prestazione di Elisabeth Moss), anche se il computo totale è in positivo, un passo avanti rispetto a “UpGrade”.

 

 

E, per dirla alla Wells, che sia "Caccia al Cacciatore"!

* * * ¼ - 6 ½           

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati