Regia di Todd Haynes vedi scheda film
Film inchiesta sulla linea de Il Caso Spotlight (non a caso i produttori e il protagonista sono gli stessi) e figlio della grande tradizione americana di pellicola di impegno civile, la storia prende spunto da un lungo articolo pubblicato dal New York Times Magazine nel 2016 firmato da Nathaniel Ricch (The lawyer who became duponts worst nightmare) e trasformato in una sceneggiatura cinematografica da Mario Correa & Micheal Carnahan per conto della Partecipant media e co-prodotto dallo stesso Mark Ruffalo, il film di Todd Haynes ricostruisce con dovizia di particolari e con ritmo incalzante una vicenda giudiziaria lunga 20 anni (e ancora oggi non ancora giunto a una soluzione) e che vede come protagonista l’avvocato aziendale Robert Bilott, socio di un importante studio legale di Cincinnati portare sul banco degli imputati un colosso dell’industria chimica (la DuPont), non soltanto suo cliente ma anche, in molti dei suoi maggiori esponenti, amici di lunga data.
A trascinarci dentro la storia uno straordinario Mark Ruffalo (che sembra avere qualche conto in sospeso con la famiglia DuPont, visto la sua partecipazione anche in Foxcatcher) che si immerge completamente nel suo personaggio in una immedesimazione quasi mimetica, che non si limita soltanto a lavorare sul fisico (il suo Robert è un po' sovrappeso, goffo, quasi anonimo) ma anche sulle espressioni e sul volto, grazie al quale viviamo in prima persona tutte le sue pesanti ricadute, sia fisiche che economiche e familiari, in quanto tutta la pellicola è costruita completamente intorno alla sua figura.
Accanto a lui Anne Hathaway nel ruolo della moglie Sarah e tra gli altri ruoli anche Tim Robbins nel ruolo del proprietario dello studio legale, Bill Pulman, Bill Camp, Mare Winningham e Victor Garber.
Haynes alla regia si mette completamente al servizio della storia, lasciando in secondo piano stile e personalismi (dato il contesto piuttosto inutili) per dare vita invece a un racconto intenso, estremamente teso e denso, a volte anche un po' tedioso nella sua parte più legale, ma con una messa in scena comunque semplificata in quanto è soprattutto la forza della storia e la sua denuncia a dover essere sempre e comunque al centro di tutto, creando attraverso una rappresentazione d’epoca d’eccellenza anche la giusta atmosfera, tesa e opprimente (molto buono il lavoro del direttore della fotografia Edward Lachman), e lasciando filtrare tra le righe tutta l’amarezza per una vicenda ai limiti dell’assurdo nella sua evoluzione.
E così l’emblema del boom economico-sociale post Seconda Guerra Mondiali degli Stati Uniti (il teflon e le sue innumerevoli applicazioni anche in campo domestico e civile) assume i contorni invece del capitalismo più emblematico e sporco, svelando dietro all’orgoglio dello sviluppo e dell’innovazione del paese il veleno della corruzione e del guadagno a qualsiasi costo.
Anche a spese della salute stessa dei cittadini americani e che, negli anni, è arrivata a coinvolgere anche il resto della popolazione mondiale.
Le didascalie sullo schermo marcano rigorosamente (e anche in maniera un po' prosaica) il trascorrere del tempo, scorrono gli anni dall’inizio (metà degli anni ‘70) fino all’oggi, registrando puntualmente (e drammaticamente) lo scoramento e le frustrazioni che sfociano fino alla paranoia e all’autolesionismo del protagonista e a una fine che ancora non c’è e, soprattutto, privo di un qualsiasi lieto fine.
VOTO: 6,5
Nota: Esiste anche un documentari di Stephen Soechtig intitolato The Devil we know (Il diavolo che conosciamo) dedicato a ripercorrere la storia delll’affaire Teflon/DuPont e presentato al Sundance Film Festival del 2018.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta