Regia di Edgar Wright vedi scheda film
Ultimamente pare Wright si stia specializzando nella sublime arte del "partire bene, finire male". Baby Driver s'afferma quale caso di studio emblematico a tal proposito, ma pure La fine del mondo - nel suo essere, peraltro, il peggior capitolo della "Trilogia del Cornetto" - s'inserisce in questa medesima deriva.
Ultima (o scorsa?) notte a Soho ci mette, purtroppo, ancor di meno dei film precedenti a scivolare e perdersi via: a metà film ormai è già lì lì per sopraggiungere un poco di stanchezza, specie in considerazione del fatto che la trama imbocca proprio il sentiero narrativo più facilmente preventivabile.
Ecco, se non altrettanto si può dire (almeno in parte) per la sottotrama concernente "il vecchiaccio che s'aggira per Soho", chi sia in realtà Sandy lo si capisce entro il primo quarto d'ora, cos’abbia fatto entro la prima ora. Peccato. E il finale, ovviamente, non scompiglia di un millimetro le carte ed anzi risulta, di nuovo, alquanto superficiale e scontato, banalmente action, pedantemente "horror" (e alla milionesima comparsa gli "spettri" e il frastuono generale cominciano seriamente a far girare i gabasisi).
Inoltre, nulla risulta approfondito: non le psicologie dei personaggi; non quel paio di tematiche di fondo indubbiamente affatto originali ma intriganti (dunque l’idea per la quale idealizzare il passato costituisca sempre operazione rischiosa, sconsigliabile quando non tossica [come in Midnight in Paris, alla larga dal "se stava meglio quando se stava peggio" {difatti, coerentemente, nella rievocazione degli “Swinging Sixties” Wright riesce ad evitare di scadere nella melensa nostalgia acritica à la Stranger Things e a dire qualcosina in merito a maschilismo, malaffare e conformismo}]; e la questione del diverso, dell’outsider talentuoso, che “vede ciò che gli altri non riescono a vedere” ma che poi in effetti – se vuole sopravvivere – deve lasciarsi riassorbire dal sistema dominante, accettare financo i peggio compromessi, pena l’eterna esclusione).
In assenza d’un discorso portato con compattezza e convinzione in porto, l'opera rimane soltanto un a tratti virtuoso esercizio di stile che però, appunto, mostra la corda quasi subito: insomma, non bastano una ricchissima colonna sonora; un’ottima ricostruzione d’epoca e un terzetto di buone interpretazioni (una spanna sopra le giovincelle Diane Rigg) a fare di un film un qualcosa di memorabile
Ci vuole quel quid in più, quella scintilla che in questo caso manca d’accendersi. Della serie: “When you don’t light the fire, when you sure try but don’t manage to set the night on fire”.
Last Night in Soho è un film discreto – affossato in buona misura dal finale – che impallidisce al confronto coi migliori del regista, segnatamente Shaun of the Dead e Hot Fuzz (un po’ meno bene, ma comunque meglio, Scott Pilgrim). E un po’ dispiace.
So, the wheel is come full circle and we’re right back at the beginning, ritorniamo alle “origini”, a chiederci: perché? Perché ‘sta brutta specializzazione nello sbracare piuttosto malamente? ‘azz. Continuando così va a finire che si dovrà diagnosticare la nuova terribilissima sindrome, la “sindrome baby driver”, laddove esistono già come minimo – tanto per fare degli es. - la “sindrome onanistica nolaniana” nonché la “sindrome del colpo di scena alla Shyamalan”.
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