Regia di Edgar Wright vedi scheda film
«Well, baby, baby, baby, you’re out of time…».
Proprio in questi giorni mi sono dedicato alla lettura delle traversie di Alice nella mirabolante Wonderland: un racconto di evasione e di incontri fortuiti, la cui innaturale follia è rinvenibile nell’ultimo lavoro di Edgar Wright.
Last Night in Soho è il suo Midnight in Paris, il suo Once Upon a Time in Hollywood, il suo Suspiria, il suo Don't Look Now, il suo I tre volti della paura, il suo Mulholland Drive, il suo Repulsion, il suo Vertigo; certo, potrebbe apparire come una ‘frasa fatta’, un mero agglomerato di titoli senza una precisa conduzione. In realtà, l’amore – oramai risaputo – di Wright per il cinematografo è tale da non rendere quest’ultimo un ‘semplice’ mezzo attraverso cui narrare e perpetuare: ne diviene piuttosto il leitmotiv, baricentro imprescindibile e impellente attorno cui costruire la narrazione. Di conseguenza, e per forza di cose, Wright produce un cinema che si auto-compiace (nel bene e nel male, prendere o lasciare), e Last Night in Soho (più di quanto furono la Trilogia del Cornetto o Baby Driver) è un grande compendio degli amori ossequiati, accumulati e custoditi nel corso degli anni (e delle visioni). Da qui, lo sguardo adottato cinge il più radicale e feticista dei voyeurismi: il personaggio di Eloise “Ellie” (la talentuosa Thomasin McKenzie), aspirante stilista, incarna questo bisogno spontaneo e pressante in quanto estensione del regista. Quello della protagonista diviene lo sguardo fra gli sguardi, il desiderio, al contempo carnale e spirituale, di apparire (e appartenere) a una dimensione altra, attraverso – appunto – il senso della vista, l’atto dell’origliare (durante la progettazione di un abito, ella rivela di fantasticare l’eventuale risultato calzato da un soggetto esterno). Attraverso lo specchio, nella metropolitanità di una Londra in pieni anni sessanta, la controparte Sandy (Anya Taylor-Joy: sensazionale) è alla ricerca di un posto nel disperato tentativo di accalappiare il proprio sogno, ostruito da un circolo di corruzione e maschilismo, proprie di una forma mentis – non poi così mutata, evidentemente – la quale, nella donna, non vede che un paio di gambe. V’è dunque, fra le righe di una superficie thriller-horror, una forte componente sociale, attuale oggi come in quel decennio di rivoluzioni; da questo punto di vista, la ‘duplice’ star assume la funzione di effigie degli orrori compiuti e dei fantasmi tormentatori.
Il portento dello sguardo, cionondiméno, è fruito anche dal secondo grande topos del cinema di Wright: il suono, ergo la musica in quanto dimensione di catarsi, distrazione (torna l’espediente visivo-sonoro dell’uso della cuffia) e, anche, smarrimento. Nel passaggio fra dimensioni spazio-temporali, la musica sottolinea il distacco, riecheggia l’impossibilità (e l’impassibilità) da parte di Ellie per un presente non tanto vacuo, quanto, semplicemente, estraneo, responsabile di delusioni e dolori che accompagnano la stessa sin dalla tenera età. Forse (anche) per questo, in parte quasi paradossalmente, il racconto non si lascia abbindolare da nostalgismi vari: piuttosto, le reminiscenze del passato fungono, in qualche modo, da ‘scappatoia’ attraverso cui fronteggiare la realtà e rappacificarsi con l’ambiguità molesta dell’immagine.
L’unità minima ed essenziale della settima arte è dotata della facoltà di plasmare e mutare lo sguardo, ma non il corso delle cose, ove nemmeno la fiction ha potere; un gioco di riflessi cristallini (letteralmente), di confini labili entro cui (soprav)vivere, nell’illusorietà di una danza eterna.
“A Diana”.
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