Regia di Edgar Wright vedi scheda film
Originalità e marchio di fabbrica. L’originalità è una qualità rara e preziosa, un parametro ricercato che sul mercato scarseggia, tanto più nel cinema dove quasi tutto quanto viene prodotto è ormai riconducibile e collegabile – più o meno direttamente - al passato, talvolta scolpito nella memoria, altre volte riesumato di sana pianta quando meno te lo aspetti.
In queste condizioni, un fattore determinante, per non dire preponderante, è strettamente legato al marchio di fabbrica predisposto da chi si mette all’opera, dallo stile che adopera e, di conseguenza, dalle modalità espositive che impone all’attenzione.
In questo campo d’azione, il regista britannico Edgar Wright è un asso pigliatutto, un autore/cultore che scandaglia con imperterrita costanza generi, argomentazioni e categorie artistiche. Ebbene, Ultima notte a Soho ne conferma il talento cristallino, eclettico e folgorante, scrivendo una nuova pagina che va a puntellare una filmografia personale sempre più ricca, significativa e diversificata.
Per coltivare il suo desiderio di diventare una stilista, Eloise (Thomasin McKenzie – Senza lasciare traccia, Jojo Rabbit) si trasferisce a Londra. Qui, dopo aver abbandonato l’alloggio condiviso con le sue compagne di studi, affitta una stanza presso l’abitazione della signora Collins (Diana Rigg – Agente 007 Al servizio segreto di sua maestà) e comincia a fare dei sogni che la riportano negli anni sessanta, nei panni di Sandy (Anya Taylor-Joy – La regina degli scacchi, Split), un’aspirante cantante che vive un rapporto turbolento con lo spregiudicato Jack (Matt Smith – Doctor Who, The crown).
Finirà per rimanere intrappolata in una spirale che mina la sua - già precaria - salute mentale, acquisendo la consapevolezza di star rivivendo fatti del passato e di dover scoprire quanto sia realmente accaduto, per potersi liberare di un incubo straniante e chiudere un irrisolto capitolo di sangue e violenza.
Dopo aver sbeffeggiato gli zombie movie (L’alba dei morti dementi), essersi confrontato con il mondo dei videogiochi (Scott Pilgrim vs. the world), aver fornito una nuova versione del contatto tra esseri umani e alieni (La fine del mondo) e rivisitato l’heist movie a tempo di musica (Baby Driver – Il genio della fuga), con Ultima notte a Soho Edgar Wright riprende in mano il thriller, addentrandosi nella versione che scoperchia la mente umana per poi rovistarla, debitrice delle architetture disturbanti, disorientanti e misteriose del Roman Polanski prima maniera e di Nicolas Roeg, grondando una forte passione per la materia trattata, accompagnata – a cascata – dallo scenario legato alla moda.
Come impostazione – il cosa -, parliamo quindi di una struttura dalle movenze fortemente derivative, che si stacca gradualmente dal reale per recarsi altrove, che attacca e intacca l’inconscio, officiando una messa in abisso che prima si amplia e poi si ritrae, aprendo una frattura che si allarga diventando una voragine, per poi comandare e orchestrare una sequela interminabile di oscillazioni, trucchi degni di un prestigiatore navigato e autorevole.
Ciò che segna a ferro e fuoco il territorio, è invece il come. Di fatto, lo svolgimento è a getto continuo, con un timing a orologeria e automatismi mirabili, ovunque ti giri sbatti contro qualcosa da non trascurare, dal fascino della grande città alle problematiche di una ragazza scossa, presenze reali e altre fittizie, coniugazioni tra entità difformi ed espedienti consolidati (dal più classico scambio di persona fino alla rivelazione di identità sconosciute).
Più in generale, Ultima notte a Soho possiede la strabiliante capacità di connettere tra loro situazioni e dimensioni, vantando una spiccata immediatezza e un’istintiva prontezza di riflessi, che gli consentono di aprire una porta dopo l’altra, con continui strappi e sbalzi, entrate in gamba tesa che si sovrappongo senza arrecare alcun fastidioso bug.
Si delinea così un contenitore traboccante di suggestioni e ossessioni, nel quale ogni componente fa la sua parte, compresi gli interpreti, che vedono in prima linea una strapazzata Thomasin McKenzie e sullo sfondo il fascino - tanto magnetico quanto imprendibile - di Anya Taylor-Joy, mentre la vecchia guardia fornisce ulteriori appoggi grazie a Diana Rigg e Terence Stamp.
Alla resa dei conti, Ultima notte a Soho è un distillato di cinema, puro e fecondo, suscettibile e vertiginoso. Da un certo punto di vista, è un semplice esercizio di stile. Dall’altro, quello che il sottoscritto avalla come primario, piazza numerosi punti esclamativi e produce sostenute associazioni di idee, tra sogni e ambizioni, passato e presente, voli e precipizi, riferimenti e adeguamenti, fattori cinetici e cinematici. Un congegno funambolico, fondato su ritmo e continuità, che aggrega e accumula, sbraccia e rimpolpa, deforma e gonfia, accosta/sostituisce/replica, sfoderando un rimarchevole effetto apnea.
Fluente e armonizzato.
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