Regia di Michelangelo Frammartino vedi scheda film
Nel 1962, nel pieno boom economico italiano, c’era un’Italia che si sponsorizzava costruendo grattacieli di oltre 25 piani, e un’Italia ancora immersa nei ritmi arcaici dettati da antichi lavori di pastorizia. Gli abitanti di un paesino calabro, lontanissimo dalla modernissima Milano, osservano da una televisione posizionata su un muretto fuori dall’unico bar del posto, un Paese a loro sconosciuto, al quale sembrano non appartenere: palazzi, uffici e ballerine, sono solo immagini che non arrivano nemmeno troppo chiaramente a chi li osserva, disturbati dalla cattiva ricezione. Un anziano pastore volge il proprio sguardo sull’ampia vallata che ospita le sue vacche. Il suo richiamo mantiene da anni la piccola mandria raccolta e ordinata. Il vecchio pare essere in perfetta armonia con la natura che lo circonda, e non è la televisione ad occupare le sue ore di riposo serale, piuttosto sono le chiacchiere con i pastori come lui che per divertirsi riproducono i versi degli animali che sono i loro veri compagni di vita.
A scombussolare questo perfetto equilibrio è una squadra di speleologi arrivati proprio dal nord Italia. Il gruppo di giovani studiosi non viene però a costruire alti palazzi, ma ad esplorare cunicoli sconosciuti. Un profondo buco è situato nel pascolo del vecchio pastore, che osserva da lontano i primi movimenti della squadra esploratrice. Comincia così l’avventura degli speleologi, che si insinuano nei cunicoli centimetro dopo centimetro, calandosi in caverne grandi quanto una tomba, per raggiungere grotte più ampie che permettono a loro di potersi accampare. Non ci sono parole tra di loro, proprio come per i pastori, ma richiami e fischi che li aiutano a sincronizzare i movimenti delle funi e ad orientarsi tra le rocce. Via via che l’esplorazione del “buco” avanza, il vecchio pastore inizia la sua lenta morte, quasi come una conseguenza naturale; giovani speleologi appaiono all’anziano come dei virus infettivi che si appropriano del suo territorio come se fosse il proprio corpo. Quando la squadra giunge finalmente in fondo al cunicolo, quando a quasi 700 m. di profondità ormai non ci sono più strade da percorrere, anche l’anziano pastore concluderà i suoi giorni su questa terra, senza però abbandonarla e lasciando il suo richiamo sospeso nella vallata.
Un film che documenta un fatto realmente accaduto, quello della spedizione della scoperta dell’Abisso Bifurto, situato alle pendici del Pollino, in Calabria, all’epoca della scoperta fu censita come seconda grotta più profonda al mondo (-683 m.). Lo sguardo del regista Michelangelo Frammartino, non è solo quello dell’attento documentarista, ma si evolve in quello più tecnico e poetico dello speleologo. L’attenzione dello sguardo, infatti, non è solo rivolto al “buco” e alla smania dell’avventura, ma soprattutto alla contestualizzazione del momento storico in cui questo fatto si è svolto. La macchina da presa si concentra sul volto dell’anziano pastore, unico personaggio ripreso in primo piano, soffermandosi accuratamente su ogni ruga del volto immobile, proprio come fosse egli stesso una montagna da esplorare in profondità. Il pastore è in effetti parte del paesaggio che da sempre controlla e che in qualche modo custodisce, dalla sua postazione nota i piccoli speleologi che si accampano sul suo pascolo e che si calano nella sua terra, in qualche modo profanando quello che è stato l’equilibrio perfetto durato fino a quel momento. Come non fare quindi un collegamento facile: la modernità, la nascita di una nuova epoca che travolge un luogo ancora impreparato alla sua venuta. Sono proprio le pagine incendiate della rivista “Epoca”, infatti, ad essere utilizzate dagli speleologi, come indicatore di profondità: lanciate nel vuoto fanno capire quanto sia profondo il cunicolo da attraversare. La macchina da presa rimane nel buio delle grotte, rischiarate dal passaggio dell’uomo per il tempo necessario, per ritornare subito dopo nell’oscurità. Da quel momento in poi però non sarà come prima, l’Abisso è stato attraversato, misurato, censito, vi sono i fori per la sicurezza delle corde, le carte incendiate lasceranno i residui di fotografie del momento, una volta terminata la spedizione, il “buco” diventerà un Abisso con tanto di mappa e misurazioni. Lo spettatore diventa (suo malgrado) un impreparato speleologo, attraversando con lo sguardo le tenebre delle grotte, cerca la debole luce dello sbocco, e riprende fiato quando la telecamera apre improvvisamente sulla vallata e sugli animali che invadono pacificamente le tende dell’accampamento. Immergersi nuovamente nell’Abisso diventa sempre più complicato, in fondo i cunicoli fanno attraversare lo speleologo più magro, fino ad arrivare all’ultima grotta senza sbocchi. Alla fine del film però, quando la spedizione ha svolto il suo arduo compito, quando la penna a china ha segnato l’ultimo traguardo sulla mappa, si comprenderà che gli uomini venuti da lontano hanno scoperto qualcosa che difficilmente si può tracciare. Molto commovente il finale.
Nota personale.
Per vedere questo film, ho fatto anche io una piccola spedizione. Unica sala disponibile era quella del bel cinema Arsenale di Pisa, che dista da casa mia circa 30 km. Devo dire che questo film però, più di altri, merita una visione in una sala cinematografica, per poter ottenere la massima concentrazione che il film merita. Non è un film “facile”, non è nemmeno un “semplice” documentario. Lo consiglio a chi si è assuefatto a serie televisive e a film da piattaforma, e vuole esplorare i profondi cunicoli del buon cinema in sala.
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