Regia di Michelangelo Frammartino vedi scheda film
Sulle montagne calabresi del Pollino, nell'agosto del 1961, un gruppo di speleologi piemontesi scoprì l'abisso di Bifurto, una grotta che scende fino a 687 metri. Al tempo risultò essere la terza grotta più profonda del mondo. Frammartino ricostruisce quell'evento ridiscendendo la buca con un gruppo di speleologi supervisionati da Giulio Gècchele che aveva già guidato la prima spedizione. Ma questa volta c'è una macchina da presa a documentare il tutto e a ridare vita a quella straordinaria scoperta.
Con “Il buco” Michelangelo Frammartino si conferma un autore dal respiro chiaramente antropologico, incline ad aprire il cinema alla sua immutevole capacità di rinnovare continuamente le sue stesse proprietà di linguaggio nel mentre ci racconta storie caratterizzate dall’avere né un tempo né uno spazio precisamente riconoscibili. Già con “Il dono” e “Le quattro volte” Frammartino ci ha posto di fronte a film catapultati fuori le “ordinarie” dimensioni spazio temporali, film che nella loro elegiaca propensione a farsi racconto per lo sguardo testimoniano dell’urgenza di ridare valore al tempo perduto e agli spazi dimenticati.
Questa dialettica tra lo sviluppo in fieri della grammatica cinematografica e il suo farsi strumento testimoniale rende Frammartino un raffinato esecutore di quell'idea di cinema che tende a fare dell'esperienza del guardare una coordinata con cui potersi aiutare. Rispetto a questo input speculativo, non è un caso che il film, prima di addentrarsi dentro la buia buca del Pollino, si apra con delle immagini di repertorio che ritraggono delle persone guardare al televisore un servizio del telegiornale. Questo servizio documenta il funzionamento dell'ascensore panoramico mentre risale il Pirellone di Milano e a contrappuntarlo ci sono i commenti riguardo all'ampiezza del panorama che la vista dall’ascensore consente di catturare. Si fa riferimento alla laboriosità della metropoli, al muoversi vorticoso dei suoi abitanti, alla vita che sembra prendere un’altra forma da lassù. Commenti intuitivi che nascono spontanei ma che intanto testimoniano il fatto che l'ampiezza del campo visivo può dare togliere notizie al nostro modo di guardare, formare lo sguardo.
Ecco, sin da questo incipit di repertorio Michelangelo Frammartino mette in rapporto il cosa si guarda con il come si guarda, e lo fa seguendo una modalità che fa leva, non solo sulla presenza di materiale nell'inquadratura, ma anche (se non soprattutto dato il tema del film) sull'assenza dello stesso, non tanto sull’aggiungere cose all'attenzione vigile della macchina da presa, ma a toglierle finanche lo spazio vitale.
Frammartino alterna le immagini claustrofobiche dell’abisso del Bifurto con larghe panoramiche che dal monte del Pollino danno ampio respiro alle potenzialità del vedere. Cosi come fa seguire alle ricerche esplorative degli speleologi la lenta agonia di un vecchio pastore. È quest'alternanza ad imporre l'attenzione verso un'esperienza visiva che mette lungo una stessa linea narrativa ciò che è manifesto da sempre con ciò che sta per diventarlo, ciò che sta avendo la vita attraverso l'indagine delli sguardo con la vita che se ne sta andando manifestandosi con degli occhi che si chiudono al mondo.
Si dà luce ad un luogo inesplorato, ma intanto che si scende è il buio più fitto a prendersi la scena. La macchina da presa fa da tramite ad un film esterno che riflette sul valore filosofico del guardare in relazione a ciò che si rende effettivamente riproducibile. Più si scende, più ciò che è sempre rimasto nascosto alla vista viene posto all'attenzione dell'occhio umano, e più il guardare assume il valore di un qualcosa che tramite il mezzo cinematografico rende partecipe del visibile ciò che è sempre rimasto (e che ancora rimarrà) invisibile. Un po' come succede con il film di Werner Herzog "Cave of Forgotten Dreams", il cinema è portato sul confine tra la rappresentazione di sé stesso e un'esperienza del guardare che depotenzia a monte ogni tentazione voyeuristica nell'eccezionalità stessa dell'esperienza visiva. Insomma, “Il buco” è un film popolato di immagini che si lasciano guardare ed ascoltare, elegiache che nel loro nucleo naturalistico e potenti nel loro afflato documentaristico.
Frammartino avvolge (non a caso) il finale del film in una fitta nebbia che avvolge ogni cosa. Un suggerimento (forse) alle proprietà degli occhi ad abituarsi ad ogni esperienza visiva, a non precludergli nessuna magnifica esperienza. Anche quella della nebbia, che nasconde le cose. Come quella degli speleologi, che perlustrano le viscere della terra dando luce alle tenebre. O quella del vecchio, che si stanno chiudendo sulle mutevoli forme del mondo. Sempre cinema di livello e impegnativo con Michelangelo Frammartino.
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