Regia di Sergio Citti vedi scheda film
Nella rarefatta poesia pasoliniana, l’anima popolaresca diventa una bizzarra forma di desolazione. La crudeltà diventa un grido lanciato nel nulla, che, casualmente, assume la forma di un canto stonato, cinicamente allegro, e grottescamente decorativo. I fratelli Rabbino e Bandiera si muovono in un assurdo coperto di stracci, in cui la fantasia è contorta nelle intenzioni, ma squallida e primitiva nella messa in pratica. La loro vicenda è una storia di sopravvivenza alla morte, o meglio, all’assassinio (quello del padre, quello della pecora Rosina), che trova come unico appiglio un nonsenso condiviso: un gioco che sembra voler riprendere, e proseguire all’infinito, un’infanzia rimasta traumaticamente in sospeso. Rabbino e Bandiera sono diventati adulti, ma non sono uomini, perché non sanno amare una donna, non sono in grado di fare le cose sul serio, e, soprattutto non hanno mai spezzato il cordone ombelicale di quella complicità tra ragazzini che li tiene ancora saldamente uniti. Sono delinquenti, ma per pura incoscienza, rozzi, ma per semplice ingenuità, e il loro attaccamento alla vita è all’insegna di una spregiudicatezza fatta di niente. La leggerezza dello scherzo in libertà è l’espressione immatura di una mente che vorrebbe sognare, ma non sa cosa, e allora si abbandona ad una simulazione della gioia che è completamente estranea alla realtà. I due protagonisti sono i clown tristi e nostalgici che cercano di mettere in scena uno spettacolo in un teatro vuoto, grigio come la cella di un carcere, deserto come una spiaggia e vasto come il mare. Gli amici servono solo a fare da spalla alle loro gag che fanno rumore, ma non fanno ridere, mentre le loro emozioni acerbe non sanno che direzione prendere. In loro permane la contraddizione di un proclama socialista ispirato alla figura di Gesù, o di un inno anarchico intonato sulle note della Marsigliese: una sinistra utopia virile, nata nella casa paterna, che avrebbe dovuto farli crescere, rendendoli forti e combattivi, mentre, invece, è rimasta allo stadio di un incubo irrisolto, incapace di confrontarsi con la concretezza degli istinti, della guerra, della durezza della vita. La loro personalità è fatta di una mascolinità incompiuta, che, contemporaneamente, rimpiange una femminilità venuta precocemente a mancare, perché rovinata dalla follia: quella della madre che si è presentata nuda alla visita di leva di uno di loro, ed è finita in manicomio, ricoverata nel reparto di isolamento. Sarà per questo che Rabbino a Bandiera, pur nell’indigenza, non sono buoni a fare i ladri, però si divertono a ballare insieme, col trucco sul viso e la parrucca in testa. Sono loro i veri derelitti dell’universo umano, che non riescono a dare forma ai propri desideri, e quindi si trastullano con le loro indefinibili frustrazioni, col pensiero eternamente proiettato all’indietro, verso un passato pieno di dolore e privo di ragione. Con Ostia, Sergio Citti e Pier Paolo Pasolini tracciano, nell’abituale contesto alienato ed estremo, il tormentato percorso dell’innocenza: un periodo dai contorni sfuggenti, in cui la vista è annebbiata e le idee indistinte. Può durare un istante, o protrarsi per tutta una vita, ma, in un caso o nell’altro, è un bene che si perde tutto d’un colpo, e sempre nel peggiore dei modi.
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