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Barriera invisibile

Regia di Elia Kazan vedi scheda film

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FABIO1971

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Barriera invisibile

di FABIO1971
6 stelle

New York: Philip Green (Gregory Peck), vedovo, è un giornalista di grido in trasferta dalla California, con la madre (Anne Revere) e il figlioletto Tommy (Dean Stockwell) al seguito, per dedicarsi ad un'esplosiva inchiesta sull'antisemitismo commissionatagli da John Minify (Albert Dekker), il suo editore newyorkese. Le indicazioni e le aspettative che Minify ripone nel lavoro di Philip sono chiarissime: "Ho venti scribacchini qui alla rivista capaci di sfornarmi cento articoli densi di fatti, cifre e indagini, non voglio questo da te: perchè ti avrei fatto venire qui, per delle cifre? Usa il cervello, cerca un'ispirazione: voglio un'idea, un potente richiamo, un trucco drammatico che appassioni tutti e li spinga a leggere". Nonostante le sue fatiche vengano alleviate dalla compagnia della bella Kathy (Dorothy McGuire), la nipote divorziata di Minify ed ispiratrice dell'inchiesta ("molto socievole, abbastanza colta e un po' snob"), Philip fatica a trovare uno spunto originale per avviare i suoi articoli. Gli giunge in soccorso un improvviso malanno di sua madre, sofferente al cuore: lo spavento vissuto rimescola i suoi sentimenti, risvegliando le sue paure più intime, come la possibile perdita di un genitore malato, lasciando riaffiorare quei dolorosi ricordi giovanili con cui era stato costretto a convivere durante la crescita e rendendogli evidente l'impossibilità di comprendere la sofferenza altrui senza una diretta esperienza personale. Ha l'illuminazione: "Sarò ebreo. Non devo fare altro che dirlo, nessuno mi conosce in questa città: basta che lo dica e posso essere ebreo per un mese, due mesi, sei mesi, non importa per quanto". Ha pronto anche il titolo: "Sono stato ebreo per sei mesi". Nessuno dei suoi collaboratori della rivista viene informato del piano, nè la sua segretaria Elaine (June Havoc) e nè Anne (Celeste Holm), la brillante caporedattrice di moda che ne ammira il coraggio e l'onestà intellettuale. Mentre l'inchiesta entra nel vivo e Philip e Kathy, sbocciato l'amore, progettano di sposarsi, giunge in visita a New York il miglior amico di Philip, Dave Goldman (John Garfield), capitano nell'esercito, ebreo. Dave, in pochi attimi, ribalta le prospettive del lavoro di Philip, demolendo il disgusto maturato di fronte ai pregiudizi, all'intolleranza latente e alle meschinità, quella "barriera invisibile" (o quel "gentleman's agreement" evocato dal titolo originale) di falsità e razzismi sottaciuti pubblicamente, che hanno travolto l'amico appena avviato il proprio progetto:
"Non sei ancora corazzato, Phil: per te è una novità, sicchè l'impressione sarà disastrosa".
"Si diventa insensibili col tempo?".
"No, ma tu concentri i casi di tutta una vita in pochi mesi, compi nuove esperienze tutti i giorni provocandole tu stesso. I fatti sono sempre quelli, ma, visti al microscopio, colpiscono di più".
Si fermerà dopo due mesi, pubblicando l'articolo appena in tempo per evitare il rischio di mandare all'aria il matrimonio con Kathy o di coinvolgere i suoi cari nell'ipocrisia generale e nei soprusi da cui è stato impietosamente investito. Tratto dal best-seller omonimo (oltre un milione e mezzo di copie vendute) di Laura Z. Hobson, apparso inizialmente a puntate su Cosmopolitan tra il novembre del 1946 e il febbraio del 1947, scritto da Moss Hart (commediografo e sceneggiatore, premio Pulitzer, insieme al co-autore George S. Kaufman, nel 1937 per L'eterna illusione, poi ridotto per il grande schermo da Frank Capra), Barriera invisibile, quarto lungometraggio diretto da Elia Kazan, realizzato a pochi mesi di distanza dall'ottimo Boomerang, l'arma che uccide, avrebbe dovuto rappresentare, nei propositi del produttore Darryl F. Zanuck, uno shockante atto di denuncia sul razzismo latente nella società americana, alla stregua del contemporaneo (e molto più incisivo) Odio implacabile di Dmytryk. Gli obiettivi di partenza, però, si scontrano con un impianto eccessivamente moralistico e schematico, seppur fondato sull'apprezzabile onestà di intenti degli autori, dove l'analisi di fondo smarrisce spesso acutezza e pathos drammaturgico per concentrarsi forzatamente (come nel caso dell'inevitabile ed incongruo happy end) sulle vicissitudini sentimentali dei protagonisti (nonostante, in ogni caso, l'ottima prova del cast d'interpreti). Lo stesso Kazan affermerà in seguito di non apprezzare particolarmente il film, denunciandone proprio la fragilità dell'impianto narrativo e la mancanza di passione nel trattare la ribollente materia. Vincerà, comunque, tre premi Oscar (miglior film, miglior regia e quello, meritatissimo, a Celeste Holm, miglior attrice non protagonista).

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