Regia di Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, Alberto Lattuada, Carlo Lizzani, Francesco Maselli, Dino Risi, Cesare Zavattini vedi scheda film
Accettai di partecipare a quel film di gruppo con lo spirito polemico dello studentello che vuol prendersi sornionamente beffe del suo professore. (Fellini)
DEI SEI EPISODI DEL FILM QUI VIENE RECENSITO SOLO QUELLO DI FELLINI. MANCANO IMMAGINI A CORREDO.
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Film che segue immediatamente I vitelloni e precede La strada, Agenzia matrimoniale è un episodio dei sei che compongono L’amore in città, progetto di Zavattini per Lo spettatore n.1, rivista cinematografica naufragata dopo il primo numero per mancanza di utenti.
Produttore Marco Ferreri, gli altri registi sono Antonioni, Lattuada, Lizzani, Maselli, Dino Risi.
Grandi nomi che in quegli anni costruivano le loro carriere, Fellini è battuto anagraficamente solo da Maselli e Ferreri, di poco più giovani, gli altri appartengono tutti alla generazione precedente.
Trentatreenne, Fellini aveva già buona esperienza di sceneggiatura, e come sceneggiatore pensava di dover morire, fino al suo casuale passaggio alla regia. Ce lo racconta lui stesso, ma non sappiamo se credergli, eterno bugiardo come aveva fama di essere.
Certo la sua poetica è già ben presente fin dalle prime prove, e perfino un corto di 17 minuti come questo reca impressa la sua firma, inconfondibile.
A partire da Antonio Cifariello, un bello del cinema italiano del genere poi incarnato alla perfezione da Mastroianni.
Accattivante nei modi, un sex symbol che non spaventava le donne, anzi, era impossibile non amarlo perché lui era il primo ad amarle, tutte, possibilmente, a lui Fellini affidò il ruolo del giornalista che conduce l’inchiesta sulle agenzie matrimoniali in quell’Italia malconcia dei primi anni cinquanta, ritratta molto bene anche negli episodi degli altri registi.
Questo di Fellini, però, ha un taglio particolare, nasce come uno scherzo che Zavattini non apprezzò molto.
E’ una storia inventata, ha una radice surreale, e sembra fare il verso alle istanze neorealiste che in quegli anni imperavano.
In realtà nel ’53 il neorealismo è quasi defunto, ha già dato il meglio di sé e molto sta cambiando nel cinema, ma certo inventare la storia del licantropo era troppo!
Cosa c’entra il licantropo? Con Fellini c’entra sempre tutto, ma andiamo con ordine:
Cifariello, giornalista, cerca l’agenzia Cibele (Cibe… che? gli fa una giovane col pupo al collo lungo i corridoi scrostati e abitati da piccionaie infilate in caseggiati fatiscenti nel dopoguerra del Paese in ricostruzione).
Fra nugoli di scugnizzi in pantaloncini corti che si moltiplicano ad ogni corridoio, lui arriva all’agenzia e scopre che il nome pretenzioso corrisponde ad un ex poliziotto dai modi untuosi e anche un po'malavitosi che dirige il traffico matrimoniale con l’aiuto di una segretaria che passerà pari pari sui set di Amarcord &Co.
Il giornalista è uno sprovveduto, arrivato per fare un’inchiesta non sa neppure cosa dire.
Alla fine inventa lì per lì la storia dell’amico molto ricco, ma affetto da licantropia, che vive isolato in campagna e a cui una moglie, disposta a vivere in campagna, farebbe molto bene, stando ai consigli di non so quale strizzacervelli.
Lui, in realtà , vorrebbe andar via, noi ci chiediamo perché sia arrivato fin là, ma a risolvere tutto ci pensa la segretaria che lo butta giù dal letto il giorno dopo dicendogli che ha una candidata.
A questo punto Fellini ci lascia tranquilli a riflettere su questo Paese allo sbando, su questa umanità misera e sola, sui furbi che si approfittano dei fessi ecc. ecc.
Tutto bene, anzi male, ma lui è lì e non molla, da dietro l’angolo del posto di appuntamento fa spuntare pian piano, pare che si debba liquefare da un momento all’altro, una signorina smarrita e impacciata che la solerte segretaria molla al giornalista perché la conosca un po’ e poi riferisca al licantropo.
La poverina è un vero spettacolo: biondina, slavatina, non brutta né bella, il vestito della festa fatto in casa, non sa neanche da che parte salire in macchina, “povera figlia di poveri”, dice,ha nove fratelli e sorelle, il padre contadino che non lavora e non sa neanche cosa significhi licantropia (e il giornalista glielo spiega come si farebbe con una bambina deficiente).
Ma le va bene così, tutto pur di sistemarsi e uscire da quella miseria.
Il problema ora è del povero giornalista che deve fare una rapida retromarcia e dire come stanno le cose.
E le cose stanno sempre peggio di come uno vorrebbe, la poverina è lasciata in mezzo alla strada con l’augurio che poi la vita ecc. ecc. solito repertorio, saluti e baci.
Certo il giornalista non è un cinico, è rimasto davvero male e ha cercato con tanta dolcezza di indorare la pillola.
E noi restiamo lì, come la povera signorina, in attesa di un finale che non c’è, primo perché mai e poi mai Fellini avrebbe scritto la parola Fine in un suo film, secondo perché la vita non ha finali, solo sequenze successive.
Per tornare al discorso dello “scherzo” che ispirò questo film, lasciamo che sia lui stesso a spiegarlo, merita:
“… Accettai di partecipare a quel film di gruppo con lo spirito polemico dello studentello che vuol prendersi sornionamente beffe del suo professore. I Vitelloni aveva avuto un gran successo, ma fin da allora la critica di sinistra prendeva le distanze. Pur esprimendo consensi, venivo rimproverato di aver ambientato il film in una provincia senza connotati precisi, mi si accusava di insistere troppo sulla poetica della memoria e di non aver saputo dare al film un chiaro senso politico. Pensai di prendermi una rivincita alle spalle di chi faceva in quegli anni comiziesche dichiarazioni sul neorealismo, creando le nefande conseguenze che ancora perdurano. … Il fraintendimento, appunto, del neorealismo di Rossellini, che pericolosamente illude che sciatteria e casualità possano costituire il primo imperioso dovere per fare film; il rispetto a ogni costo della realtà come accadimento esistenziale, inalterabile, intoccabile, sacro. L'emozione personale, l'intervento soggettivo, la necessità di selezione, l'espressione, il senso artigianale, il mestiere, sono dei condizionamenti che politicamente si collegano con la reazione; abbasso i ricordi, le interpretazioni, il punto di vista suggerito dall'emozione, abbasso la fantasia, in castigo l'autore! Sprovvedutezza, ignoranza e pigrizia hanno fatto accettare questa nuova estetica con entusiasmo, tutti potevano fare film, anzi, tutti dovevano farli. Un'estetica a della non-estetica che penso abbia contribuito in buona parte alla crisi attuale del nostro cinema. Inventai un'agenzia matrimoniale annidata nelle soffitte di un enorme palazzo fatiscente; e la storia della ragazza che pur di sposarsi accettava di unirsi in matrimonio con un licantropo. Giurai che era tutto vero, e quando mostrai il primo montaggio del mio episodio, gli autori del film-reportage si voltarono verso di me molto soddisfatti: «Hai visto, caro Fellini, che la realtà è sempre più fantastica della più sfrenata fantasia?».
(da “Federico Fellini – Intervista sul cinema” colloquio con Giovanni Grazzini, ed. Laterza 1983)
… e, come disse il buon Aristofane (o, se non l’ha detto l’ha pensato) “una risata vi seppellirà"
www.paoladigiuseppe.it
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