Regia di John Sayles vedi scheda film
John Sayles è un regista famoso per essersi occupato di tematiche attinenti alle turpitudini e le virtù di un paese attraente, ma colmo di contraddizioni. In “Otto uomini fuori” si concentra sul mesto caso dello scandalo “Black Sox”: nel 1919, terminata una stagione straordinaria, il gruppo dei giocatori di baseball più stimati del paese, per ribellarsi al loro manager dal braccio corto, accettano di perdere i match al fine di ricevere degli ingenti guadagni dai truffatori Billy Maharg (Christopher Lloyd) e "Sleepy" Bill Burns (Richard Edson); si avvicendano una serie di delicate conflittualità interne alternate a minacce dalla criminalità organizzata, fin quando l’inganno viene scoperto dalla stampa, e gli sfortunati atleti verranno processati per corruzione. La verbosità dei dialoghi, unita al linguaggio intricato che si focalizza sulle regole di questo sport, porterà spesso a confondere il pubblico europeo, il quale prevedibilmente non avrà familiarità con la disciplina nazionale maggiormente praticata negli States. Sayles però riesce a mettere in risalto le asperità, le delusioni e gli abusi che appartengono al business, filtrando il suo pdv con una fervente direzione corale, la quale non condanna né idealizza le azioni, spesso deprecabili, dei protagonisti: i ruoli principali sono stati intrapresi da attori memorabili; oltre a garantire delle buone interpretazioni, a quanto pare erano pure dei bravi tiratori. Rimarchevoli John Cusack (Buck Weaver) e David Strathairn (Eddie Cicotte), i quali tratteggiano quei “volti puliti” che, da un atteggiamento iniziale di innocenza, vitalità e dedizione, a causa della rete di potere, protervia e opportunismo di cui fanno parte, diventano tangibilmente nebulosi e cinici. Quasi degli eroi tragici (Cusack raramente ha riproposto esibizioni di tale caratura). Degni di nota altresì l’aggrottato e ambiguo Michael Rooker (Chick Gandil), il sempre spavaldo Charlie Sheen (Happy Felsch), il britannico John Mahoney (Kid Gleason, il coach idealista), e naturalmente Clifton James, ovvero l’avaro padrone del team Charles Comiskey, uno di quegli eloquenti caratteristi che oggi difficilmente si possono riscontrare sul grande schermo. Tuttavia, seppur il lavoro degli sceneggiatori sia abbastanza solido e fluido (anche nelle sovrastrutture narrative), alcune maschere, come quella dell’analfabeta Joe Jackson (D. B. Sweeney) o del Swede Risberg di Don Harvey, mancano comunque di profondità e nitidezza. Le sequenze delle partite, ad ogni modo, hanno un realismo e uno spessore di stimabile spettacolarità. Apprezzabile nondimeno il pregnante gioco di luci e ombre di Robert Richardson. L’incisività conferita alla riproduzione della vituperata classe operaia dei primi anni venti e la ponderazione manifestata nell’esposizione dei vari registri assicurano un meccanismo che, al netto della prolissa complessità di fondo, offre una visione trascinante.
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