Regia di Sergej Paradzanov vedi scheda film
Se i funzionari della critica cinematografica sovietica bollavano di calligrafismo ed estetismo i film di Tarkovskij, ci possiamo immaginare come nei giudizi sul cinema di Paradzanov abbondassero termini quali «ermetismo ed estetismo decadente». In effetti, è evidente la vicinanza tra il cinema tarkovskiano e quello di Paradzanov, quanto meno nel periodo in cui uscì questo Il colore del melograno, successivo al capolavoro del regista russo Andrej Rublëv (1966), ma anche al proprio precedente Le ombre degli avi dimenticati (1964). Come Tarkovskij, anche Paradzanov predilige - in maniera perfino più radicale - un cinema il cui fulcro sia il montaggio "interno" all'inquadratura, nel quale ogni sequenza si traduce in una composizione pittorica, dai risvolti simbolici, che fuoriescono dalle posizioni, dai movimenti, dai colori, dalle musiche, dai rumori e dalle parole, che raramente sono recitate dai personaggi e più spesso piovono declamate dal cielo.
Il colore del melograno (titolo italiano che sostituisce la pianta al frutto dell'originale russo) è la "biografia poetica" del poeta armeno (anche Paradzanov, il cui cognome era stato cambiato dal nonno dall'originario Paradzanian, era originario di quel paese tanto martoriato) Sayat-Nova, vissuto nel XVIII secolo. La vita del poeta è per così dire narrata attraverso i quadri di cui dicevo sopra, con i personaggi inquadrati attraverso piani fissi, nelle loro attività che talvolta sembrano uscire da documentari folklorici, spesso commentati da musica tradizionale o dai versi dello stesso personaggio principale, interpretato da tre diversi attori, nelle varie fasi della vita.
Film sconsigliato a chi cerchi emozioni forti attraverso corse e scoppi, Il colore del melograno è un'esperienza visiva che si potrebbe, molto grosso modo, situare tra le rappresentazioni del teatro giapponese e le biografie cinematografiche più recenti, come quelle di Derek Jarman.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta