Regia di Albert Serra vedi scheda film
Il Re Sole sta morendo. Sta succedendo ora, in qualche parte del mondo. È giorno. Ed è anche notte.
Rosso. Colore intenso come il buio. Urlante come un dolore. L’ambiente è essenziale e vuoto. Astratto e freddo, come il tempo che non passa. Come il tempo di un’agonia. Il re è a terra, schiacciato dal suo peso. La sua figura, ridotta ad un maestoso macigno, è composta nell’immobilità della malattia che spegne il sole, ma lascia accesa la grandezza, perpetuata da quel continuo gemito, universale e trasversale a tutte le lingue umane. Albert Serra trasferisce la poesia del suo raccontare carnale, sanguigno, diabolico e primitivo nelle anonime geometrie di un museo d’arte moderna. Un non luogo, su cui, salendo una scala dalla ringhiera trasparente, si può posare solo uno sguardo distratto, in attesa di vedere, di scoprire, di essere sorpreso da altre cose, altrove. Un pianerottolo in cui la storia capita per caso. Ma che nondimeno si lascia riempire della sua tragedia, che impregna la sua aria di un denso liquido organico, infiammato come il corpo morente. Il respiro della sofferenza lo attraversa con l’onda d’urto di un comando rantolante, che non si arrende all’avvento del non essere. Il lamento è lo strascico insistente del potere che non molla, che si impone sempre e comunque, anche solo per sottolineare la smisurata drammaticità della propria presenza. Il suolo è il palcoscenico che rimpiazza un trono non più praticabile: è lo sfondo di una recita orizzontale, di un uomo che rotola e striscia, dominante perché solo in mezzo ad una stanza deserta, senza altro padrone che lui, senza altra collocazione che quella definita da lui, che, da terra di nessuno, la trasforma nel suo esclusivo intorno. In La mort de Louis XIV era un letto, una stanza separata dal mondo, avvolta in un’immobile penombra. Qui è un pavimento spoglio, una superficie indifferente che riverbera il bagliore del tramonto molto meglio che un giaciglio di coperte e lenzuola. Il riflesso è più netto e crudele. Privo della mollezza del lusso e del vizio, con l’istinto ridotto ad una mano goffa che afferra un pasticcino da un vassoio. Il gusto mortifero, succoso, impiastricciato di maledizioni della Història de la meva mort si prosciuga qui in una pena senza eccessi che vive di sole pulsazioni, chiudendosi sobriamente in se stessa senza sporcare la scena con i versamenti del suo male. Ahi, ahi. La fine giunge a suon di stilettate lievi, singole punture di una invisibile spina. La si sorseggia poco a poco, come un’amara medicina, anziché divorarla nel crepitante banchetto di cibo, sesso, distruzione ed eternità che Casanova condivide con il conte Dracula. Lo strazio, stavolta, non si veste dei pacchiani clamori della festa. Stavolta sceglie l’acuta rarefazione di un incanto, ipnotico, monocromatico come una nebbia che trattiene e soffoca tutto, anche il fuoco della passione, la fatale scintilla di un’illusione, una folgorante illusione di onnipotenza.
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