Regia di Jerzy Skolimowski vedi scheda film
Conoscevamo davvero molto poco di Jerzy Skolimowski quando nel 1966 Bariera (Barriera) arrivò quasi di soppiatto qui in Italia, ma si impose subito all’attenzione di critica e pubblico (per lo meno di quello più fortunato che riuscì a vederlo perché la pellicola ebbe una distribuzione molto limitata): della sua attività di regista ci era arrivata soltanto qualche pallida eco ma nessuna effettiva “certezza” (dovevamo accontentarci in quegli anni di ciò che veniva reso disponibile dalla distribuzione in sala o nei festival, il che era davvero molto poco rispetto alla produzione mondiale adesso facilmente acquisibile tramite internet o il mercato internazionale dei DVD).
Nonostante avesse già girato un mediometraggio sulla boxe (uno sport che conosceva molto bene e che aveva direttamente praticato in forma semi-professionale per qualche anno) e due lungometraggi (Rysopis del 1964 e Walk-over del 1965) che gli avevano permesso di acquisire in patria una discreta fama nell’ambito dei movimenti di rinnovamento (tematico e formale) che stavano vivacizzando non solo la cinematografia polacca del periodo, ma anche quella di gran parte dei paesi socialisti che cominciavano ad aprirsi all’occidente, non era ancora un nome di primissimo piano e quindi da “esportazione” al di là dei confini della sua terra, come lo erano invece quelli dei Wajda, dei Munk o dei Kawalerowicz, solo per citare i primi nomi che mi vengono alla mente. La sua notorietà internazionale era dunque legata soprattutto alla parallela attività di sceneggiatore che lo aveva portato a scrivere per Wajda (Ingenui perversi, uno dei sui titoli meno conosciuti e ricordati che meriterebbe una rivisitazione) e per un altro astro nascente del calibro di Polanski per il quale aveva curato lo script del suo strabiliante debutto (Il coltello nell’acqua) e unico film da lui girato in terra di Polonia, capace da solo di aprirgli le porte prima dell’Europa e poi del mondo intero.[1]
Skolimowski, non ancora trentenne ai tempi di Barriera (è nato come ben sappiamo nel 1938) faceva dunque parte di quel gruppo di autori che, semplicizzando un poco, potremmo definire “d’avanguardia”, impegnati a portare avanti la ricerca di nuovi linguaggi espressivi da utilizzare non solo per svecchiare il sistema, ma anche per documentare in maniera più moderna e attuale sperimentando inedite forme di racconto, la profonda crisi di valori che rendeva arroventato e problematico il clima di molti dei paesi satelliti dell’Unione Sovietica. Poeta e drammaturgo, studioso di etnografia, aveva frequentato la Scuola superiore di cinematografia di Lodz dove si era diplomato: pur giovanissimo dunque era già un uomo di grande cultura e conoscenza che avvertiva il bisogno primario di estrinsecare attraverso il cinema la sua visione (tutt’altro che positiva) del mondo che lo circondava e che gli stava già un po’ stretto, per innestarci dentro i riferimenti derivanti dalle sue esperienze personali. Una necessità la sua, che si avverte chiaramente almeno in questa sua terza fatica (in quelle due che la precedono non saprei proprio dire perché purtroppo non le conosco). Skolimowski si trovava dunque a dover fare i conti con una situazione generale di crisi morale, ideologica e politica, con la quale non era facilissimo convivere o mostrare una accettazione passiva delle cose, senza tentare una qualche forma di ribellione oppositiva nonostante la soffocante morsa dittatoriale del potere ancora molto castrante..
Barriera imperfetto, potente e coraggioso, pur ancora un po’ lontano dalla perfezione stilistica che il regista raggiungerà nelle sue opere successive, affonda dunque le sue radici proprio in questo clima e in questi bisogni dai quali trae molta della linfa vitale che innerva la potenza del racconto e ne fa una esemplare pellicola molto stimolante che ben documenta e rende palese il momento storico di riferimento e le oscillazioni dell’anima che da questo derivano, grazie a una inedita forma di sperimentazione linguistica puntigliosamente condotta con metodico rigore, capace di raccontare in termini soprattutto simbolici, il senso di una rivolta etica e sentimentale ancora in embrione e quasi irrazionale, già ricca però di indicazioni (e sollecitazioni) che coinvolgono le sfere dell’ideologia, della politica e della morale alle quali accennavo sopra.
Arrivato nelle sale dopo essere transitato da una delle rassegne di cinema considerate “minori” (ma anche fra le più singolari, specialistiche e stimolanti dell’epoca) come quella del “Gran premio Bergamo” giunta quell’anno alla sua IX edizione e da lì uscito vincitore assoluto (per diritto di cronaca segnalo che quell’anno gli altri premi che furono assegnati riguardarono: Il mestiere di dipingere di Valentino Orsini – categoria dei film sull’arte contemporanea; Proc se usmivas, Mona Lisa? – Perché sorridi Monna Lisa? del cecoslovacco Jiri Brdecka per la categoria dei film di animazione; De overkant – Dall’altro lato del belga Herman Wuyts per la categoria dei film sperimentali e Chojugica – Animali scherzanti del giapponese Yasuo Matsukava per la categoria dei film d’arte e sull’arte realizzati per la televisione) Barriera ha come protagonista un giovane studente di medicina che decide di punto in bianco di abbandonare il suo “nido ovattato” (lo studio, il vecchio padre, i compagni) per andare alla ricerca – contando solo sulle proprie risorse personali - di una vita più libera, non condizionata dagli altri, utopicamente idealizzata come l’unica in cui sia effettivamente possibile realizzare se stessi nel rigoroso rispetto delle proprie inclinazioni più genuine e sentite.
L’incontro con una ragazza, il tenue rapporto d’amore che ne deriverà, sarà così il primo tassello di questo suo percorso esistenziale e formativo che evidenzia magistralmente lo stato di frustrazione in cui si dibattevano in quel periodo non solo gli intellettuali comunisti (per lo meno quelli pensanti e razionali), ma anche la gioventù in senso lato (quella più sensibile) che non aveva più cieca fiducia nel sistema e cominciava ad avvertire l’ingombrante peso della situazione di sudditanza imposta oltre che di schiavitù morale e ideologica che gravava sulle sue spalle e dalla a quale, sia pure con molte difficoltà e qualche incertezza, cercava (spesso con pochissimo successo) di affrancarsi.
Un film molto complesso, e per più di una ragione “privato” e “personale” come questo, proprio per le implicazioni sociopolitiche che si porta dietro, per essere compreso pienamente nel suo valore anche civile, avrebbe bisogno di essere esaminato e discusso sequenza per sequenza, visionato più volte dopo averlo studiato e meditato attentamente avendo a disposizione la sceneggiatura e conoscendo molto meglio di quanto invece la conosca io, la realtà Polacca di quegli anni e i trascorsi giovanili relativi agli anni vissuti in Polonia dal regista, a partire dalla tragica morte di suo padre, militante nei gruppi di resistenza antinazista che fu catturato e trucidato dai tedeschi nel 1943, una “scomparsa” prematura che indubbiamente tracciò un solco profondo nell’anima di un ragazzo che aveva allora soltanto cinque anni e che si riverbera su tutta la fase primaria del suo percorso artistico, altrimenti si corre seriamente il rischio (che andrebbe evitato) di basare l’analisi critica solo su impressioni fuggevoli, lasciandosi trascinare soprattutto dalle straordinarie suggestioni formali che l’opera propone e relegando in secondo piano tutto il resto, compreso il suo eccezionale valore anche contenutistico.
Cercherò dunque di non cadere in questo errore tentando per lo meno di ritrovare il senso e le emozioni suscitate dalla mia prima ormai lontanissima visione (per esserne completamente esenti dal rischio, immagino che bisognerebbe aver visionato almeno anche Walk-over che mi si dice essere un’opera non solo altrettanto libera nei temi e nelle atmosfere, ma ugualmente problematica e inquieta, già immersa insomma in una atmosfera straniante che la colloca molto lontana dai dettami imposti dal cosiddetto “realismo socialista”). Purtroppo però come ho già detto, questo non mi è stato possibile, e devo accontentarmi di ciò che so e ricordo, anche se sarò comunque aiutato almeno in parte a colmare quel vuoto, dal fatto che adesso - a posteriori - questa sua opera giovanile può essere letta conoscendo anche il dopo (inteso come ciò che è stato realizzato nella fase immediatamente successiva) e questa è una condizione fortunata che permette almeno di riallacciare i fili e di ritrovare gli stimoli, le motivazioni e soprattutto il senso dell’operazione.
Mi riferisco ovviamente non tanto al successivo Le départ (stupidamente “ribattezzato” Il vergine per il mercato italiano dal solito imbecille di turno: un film girato in Belgio e quindi in un contesto già lontano dalla sua patria che narra la storia di un’educazione sentimentale colta nel momento del passaggio dall’adolescenza all’età adulta e sua personale rilettura della Nouvelle Vague francese, realizzata utilizzando il volto di un attore fra più significativi e identificativi del movimento, quello di Jean-Pierre Léaud) quanto a quello girato quasi in contemporanea (e concluso subito dopo) di nuovo in Polonia: Reçe do góry – Mani in alto, un altro lavoro durissimo e surreale che parla del potere astratto e irrazionale esercitato dai governi totalitaristi dei paesi socialisti che, pur selezionato nel 1967 per la Mostra di Venezia, venne poi ritirato dalle autorità centrali del suo paese che ne vietarono poi anche la circolazione per circa 14 anni (lo potemmo rivedere insomma solo quando, caduta la censura, il regista lo revisionò parzialmente prima di rimetterlo in circolazione visto il tempo trascorso, rimontandolo, aggiungendo un prologo e virando in vari colori il bianco e nero dell’originale), un lavoro di recupero che precede di poco la realizzazione di Moonlighting (girato di fatto in Inghilterra) che parla del regime militare di Jaruzelski e della legge marziale da lui decretata il 13 dicembre del 1981, film politico come pochi altri, girato con un ritmo incalzante e molta angosciante amarezza di fondo che mette definitivamente in chiaro il rapporto conflittuale fra il regista e il suo paese natio.
Partendo dunque da queste (per me) necessarie premesse, posso a questo punto riprendere il discorso dal punto in cui avevo lasciato la storia qualche paragrafo più sopra passando a qualche dettaglio esplicativo a mio avviso abbastanza necessario, soffermandomi prima di tutto sulla lunga sequenza della serata danzante in un locale alla moda che è davvero centrale nell’economia dell’opera, dove personaggi, situazioni e dialoghi, prospettano continuamente un secondo piano di lettura molto più autentico e vero che va al di là delle immagini mostrate e che getta una luce cruda e impietosa sul militarismo di certi gruppi politici, sul lassismo morale e soprattutto sul rinascente (e altrettanto castrante) spirito borghese. Non a caso, la livida alba che ne segue, anticipa (attenzione: SPOILER: il piccolo paragrafo riportato da me in grassetto ne contiene alcuni: chi non gradisce le anticipazioni, potrà dunque saltarlo senza problemi ricominciando poi a leggere il resto con tutta tranquillità) l’ipotetica morte del protagonista sotto le ruote del tram guidato dalla ragazza che ha condiviso con lui la breve storia d’amore che li ha uniti (ma il giovane muore davvero? Oppure si salva? Di questo non potremo avere alcuna certezza poiché Skolimowski preferisce glissare e lasciare nel dubbio lo spettatore senza fornirgli indicazioni o suggerimenti orientativi.
Nel film, ogni evento, ogni situazione, rappresenta dunque “semplicemente” una tappa del lungo cammino dell’uomo verso la libertà, e come tale, il regista non si cura affatto di rispettare le regole canoniche di ogni racconto concentrato principalmente sulla logica ferrea dei fatti che servono a creare empatia: preferisce al contrario costruire un discorso “parallelo” sviluppato su sequenze-chiave che forniscono di quei fatti una rappresentazione anti-drammatica al servizio esclusivo della riflessione.
Credo allora che proprio che questa “anomalia” aiuti lo spettatore ad essere coinvolto razionalmente tralasciano l’emozione e quindi senza correre il rischio di essere trascinato passivamente nel dramma (sarebbe infatti molto deleterio se accadesse questo). I caratteri artistici più specifici e veri della pellicola, risultano infatti in ultima analisi più lirici che tragici (e anche leggermente straniati) all’interno di un discorso complessivo che spesso ricerca e trova la necessaria autonomia espressiva proprio isolandosi dal contesto per privilegiare invece gli elementi simbolici di un discorso che in alcuni passaggi diventa persino ellittico e asintattico.
Il simbolo è dunque non solo nella base del racconto, ma lo si ritrova anche in molte sequenze, introdotto da elementi in apparenza non strettamente pertinenti con la narrazione in corso, il che rende particolarmente intrigante (anche se non sempre particolarmente agevole soprattutto se deficita nello spettatore lo spirito riflessivo e contemplativo di cui parlavo prima) un approccio quasi multimediale di un regista che – non va dimenticato - è anche poeta e drammaturgo (come conferma l’inserimento di un suo componimento poetico “cantato” da un personaggio secondario proprio all’inizio della sequenza della serata danzante).
Restano a mio avviso (e in ogni caso) sufficientemente chiare le intenzioni primarie dell’autore che sono non tanto quelle (comunque evidentissime) di aver voluto fare un’opera anticonformista e coraggiosa, quanto quelle di aver provato a indicare e rendere palesi le ragioni di uno scontento generale, portando alla luce i motivi profondi e le derive anche morali, di quella crisi che stava devastando con la forza di un ciclone la società socialista a dieci anni dal “disgelo”. Elementi questi che emergono non tanto dalla figura del protagonista e dai suoi casi personali (che oggettivamente alla fine non si distanziano molto dai canoni espressivi comuni a quel cinema dell’alienazione particolarmente in auge in quegli anni e ai quali avrebbe potuto aggiungere poco o nulla) quanto da quel contesto simbolico (sembrerò un tantino pedante, ma credo che sia giusto invece sottolinearlo con una certa enfasi, data la sua importanza) che scaturisce dalle sequenze-chiave che consentono a Skolimowski di scandagliare al meglio i mali della società (ovviamente la “sua”, quella polacca,
perché in questo caso non sarebbe davvero possibile generalizzare) come se si trattasse della filosofia dell’esistenza.
Se ho già ampiamente parlato della scena del ballo, non posso però esimermi di citare per lo meno l’altrettanto straordinaria sequenza iniziale, in cui la caduta in avanti dei corpi di giovani uomini e il tonfo sordo che ne consegue, pur giustificata “a posteriori” anche sul piano della narrazione logica, ha una sua chiarissima autonomia espressiva di denuncia che fa quasi male, drammaticizzata com’è da immagini di un eccezionale rigore figurativo (quasi alla Borowczyk si potrebbe dire).
La libera struttura formale del racconto, l’afflato poetico che lo pervade, sono dunque l’espressione artistica compiuta di un procedimento tutt’altro che predicatorio, che permette al regista di stigmatizzare l’oscura realtà che lo circondava in quegli anni con un approccio più morale che ideologico (e infatti il suo appello – se così vogliamo chiamarlo – è rivolto più alla ragione che al sentimento e ha spesso i toni dolci dell’elegia anche se a tratti non può esimersi dall’assume i caratteri veementi del grido di protesta).
Qualcuno potrebbe obiettare a questo punto che il suo discorso è troppo personale, privato, per pretendere di assurgere al ruolo di rappresentazione oggettiva di un’intera generazione e che lo stesso utilizzo simbologico delle sequenze potrebbe far persino correre il rischio al film di rinchiudersi dentro i confini angusti di un’esperienza intima con conseguenti difficoltà a decifrare il messaggio. Io comunque non ci ravviso nulla di tutto questo, perché anche se le osservazioni sono senz’altro pertinenti, a me sembra che in ogni caso sia proprio il lirismo cinematografico di Skolimowski, la pregnanza delle immagini, la folgorante rappresentazione di alcuni aspetti della realtà, a porre l’opera molto al di là di una semplice “confessione” strettamente personale, o di uno sterile sfogo sentimentale fine a se stesso e a conferirle (riscattandola pienamente anche dai difetti) la giusta dimensione artistica necessaria a rendere percettiva questa complessa descrizione degli uomini e della società.
[1] Con Munk e Polanski condivise anche la sua passione per il jazz che lo portò a suonare la batteria per alcuni anni in vari complessi formati soprattutto da appassionati di musica e di cinema.
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