Regia di Rino Di Silvestro vedi scheda film
Un curioso "pout-pourri" di situazioni estreme e di soluzioni folli impensabili per il cinema d'oggigiorno.
La figura di Rino Di Silvestro (1932-2009) è stata senz'altro una delle più anomale e bizzarre del colorito panorama del nostrano cinema-bis.
Dopo aver frequentato negli anni sessanta con alterne fortune il teatro sperimentale e d'avanguardia, il nostro si dedicò per evidenti ragioni alimentari al cinema commerciale. Pur non disponendo di alcuna specifica esperienza e facendosi miglior interprete di quella deliziosa cialtroneria tutta italiana che informava l'allor coevo sottobosco produttivo, convinse improvvidi finanziatori a curare in prima persona la regìa di allucinanti copioni da lui stesso interamente concepiti, riuscendo altresì a imporre, almeno nei suoi primi films, budgets relativamente elevati e a far scritturare attori di comprovata notorietà.
In un'ottica di rivitalizzazione dei generi che inevitabilmente iniziavano a mostrare la corda, il compianto cineasta capitolino trovò il suo terreno più fertile nel cinema estremo ed exploitante, anticipando i vari Sergio Garrone, Gianni Siragusa e Luigi Batzella, dai quali peraltro si distinse e si connotò per una maggior bizzarria (il che è tutto dire!) ma anche per una certa originalità di intenti.
Dopo aver esordito nel 1973 con il delirante "Diario segreto in un carcere femminile", rivisitazione in chiave ultratrash del sottogenere "women in prison", sorto in grembo a scalcinate produzioni d'oltreoceano, il Di Silvestro licenzia l'anno successivo un'opera ambientata nel mondo della prostituzione da strada.
Una carrellata su varie puttane e relativi falò, fa da cornice a un delitto graficamente crudele da thrilling argentiano ai danni della starlet Gabriella Lepori, nella parte di una studentessa universitaria, passeggiatrice per passione e per danaro. Vittima sacrificale prediletta dal nostro cinema di genere, la ricordo come la diciottenne stroncata da overdose per mano del crudele spacciatore Ivan Rassimov nel lenziano "Roma a mano armata" (1976) e l'infermiera alla quale venne concesso dal marchigiano Stelvio Massi l'onore d'esser sventrata ignuda dal maniaco di turno nel suo "Cinque donne per l'assassino" (1974).
Dopo una lunga sequenza che vede la Lepori sul tavolo autoptico con buona abbondanza di dettagli gore, il Di Silvestro decide inopinatamente di scolorire la trama gialla (che comunque procederà a una sia pur rabberciata conclusione), piegando a una panoramica sull'ambiente meretricio e sul relativo contorno di sfruttatori, clienti, guardoni e maniaci sessuali.
Nell'incredibile quantità di carne al fuoco messaci a disposizione, si passa con estrema disinvoltura dal più becero trash da far vergogna al peggior Polselli (vedasi il gioco sadomaso di dubbio gusto che vede coinvolti un timido maniaco dalla parlata piemontese (il prolifico generico Francesco D'Adda) e un'avida "prezzolata" sicula impersonata dall'ex modella austriaca Krista Nell), sino a uno stupro di compiaciuta truculenza ai danni d'un'ingenua e disponibile Orchidea De Santis, seguito dall'immancabile e non meno truce vendetta da parte dei protettori.
In un guazzabuglio sospeso tra il giallo-poliziesco (in cui gira letteralmente a vuoto uno stralunato Aldo Giuffrè nel ruolo dell'ispettore Macaluso, bravo comunque a colorare con umanità un personaggio tutto sommato superfluo) e accenni di commediaccia erotica di serie Z, saranno quei toni da melodramma sociale da "Grand'Hotel" a risultare, alla fin della fiera, prevalenti. In tale contesto, ecco che il personaggio di Primavera, rivestito da un'interpretazione a dir poco maiuscola di Maria Fiore (al secolo Jolanda De Fiori) non può che assurgere inevitabilmente a figura dominante dell'intera vicenda. Se la compianta teatrante romana aveva in mente la "Mamma Roma" pasoliniana, il Di Silvestro ce la avvicina piuttosto a quell'Elina De Witt del capolavoro trash "Il magnaccio" (1968) del carneade Franco De Rosis. Vera e propria "nave scuola" per timidi e imberbi postadolescenti alla prima esperienza, prostituta dalla personalità straripante ma che dissimula una psiche essenzialmente fragile, ha a suo carico una figlia sedicenne che adora, nonchè Antonio il suo giovane mantenuto. Ne riveste il ruolo un iperimbambolato Paolo Giusti, attivissimo nel settore dei fotoromanzi e che dividerà la sua carriera tra comparsate d'autore e capisaldi del trash, tra cui gli imprescindibili "Gole Ruggenti" e "Patrick vive ancora". L'abbandono da parte della figlia, che deciderà di andare a convivere proprio con Antonio, sarà vissuto dalla nostra continuando come sempre e più disperata di prima a "fare la vita", il tutto commentato dalla struggente colonna sonora a firma dei tali Roberto Fogu e Marcello Ramoino. Al suicidio fisico, la nostra preferirà, nella sua mente malata, una sorta di "morte spirituale" a sottolineare come a una povera disgraziata non sia in alcun modo consentito riabilitarsi, nemmeno attraverso gesti estremi e tragici.
A completamento del notevole panorama attoriale si segnalano inoltre: un cinico Luciano Rossi nella parte di un fotografo ricattatore; il baffuto charmant di Trinacria Elio Zamuto, raffigurato preferibilmente con le immancabili sigarette con bocchino, protettore della prostituta uccisa nella scena iniziale; una viziosa Magda Konopka, nelle vesti d'una lenona d'alto bordo e un'ormai quasi dimenticata Cristina Gajoni con il suo inconfondibile foulard in testa da "campagnola ucraina ante litteram" nel breve ruolo d'una mondana veneta. Lontana dai fasti dei films con Totò dei primi sessanta, tentò senza fortuna la carriera di cantante per poi ripiegare agli originari ruoli da oca giuliva diradando via via le sue partecipazioni in produzioni sempre più sgangherate. Si conclude con la maschera tragica del sempre discreto e professionale Umberto Raho nelle vesti d'un tristissimo notabile dedito al vouyerismo, la cui testimonianza risulterà determinante nella soluzione della squinternata sottotrama gialla.
Circolato con svariati montaggi e anche con quelle famigerate "scene aggiuntive" nelle versioni per l'estero, il film ha storicamente e impietosamente subìto l'ostracismo e il massacro da parte della critica ufficiale e anche ufficiosa.
Alla luce di un sereno riesame "sine ira et studio", "Prostituzione" rimane, ad avviso di chi scrive, un curioso "pout-pourri" di situazioni estreme e di soluzioni folli (impensabili per il cinema d'oggigiorno), in un periodo in cui tutto ma davvero tutto era possibile e che vide coinvolti, a miglior comprova di quanto asserito, attori di preclara fama avvezzi a ben altri impegni artistici.
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