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Il colore venuto dallo spazio

Regia di Richard Stanley vedi scheda film

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La recensione su Il colore venuto dallo spazio

di mck
7 stelle

La scure d'altri mondi.

 

 

Color Out of Space” è la più recente versione del “realistico studio d’ambiente e d’atmosfera” scritto da H.P. Lovecraft nel marzo del 1927 da cui Richard Stanley (“Hardware”, “Dust Devil”) ha tratto [scrivendo la sceneggiatura con Scarlett Amaris, con la quale aveva già collaborato per “the Mother of Toads”, segmento del film a episodi collettivo “the Theatre Bizarre”, e per il mediterraneo-pirenaico (occitano) e catalan-linguadocense documentario giusto un filo sopra le righe “l’Autre Monde”], per l'appunto, questo suo ritorno al cinema con un lungometraggio di finzione dopo quasi un quarto di secolo dal licenziamento in tronco avvenuto sul set di “the Island of Dr. Moreau”, un altro adattamento da un grande autore del fantastico del secolo scorso, H.G. Wells.

 


Invertendo la freccia del tempo si potrebbe azzardare nel definirla come la propaggine settentrionale della floridense Zona vandermeer-garlandiana trasportata per l’occasione nel suo luogo d’origine, anche se in un’altra epoca, la nostra, ovvero il contemporaneo New England (il cui stato più piccolo dei sei che compongono la regione dell’estremo nord-est U.S.A. ospita la capitale che ha dato i natali e l’eterno riposo al solitario sognatore di Providence, Rhode Island), per la precisione una nascosta e poco popolata, ma idricamente ricca, valle interna del Massachusetts (interpretata dai montagnosi dintorni boscoso-rurali ricoperti dai pini della sierra della municipalità di Sintra, nei pressi di Lisbona, Portogallo, al di là dell’Atlantico: stesso oceano, sponda opposta), nei pressi della finzionale Arkham, epicentro del Ciclo dei Miti di Cthulhu.

 


L’epigona e discepola trasposizione è al contempo tanto accurata (e accorata) e fedele quanto inventiva e ristrutturante: il “resoconto” che Ammi fa al narratore [che nel film diviene, oltre che afro-americano (post/beyond le Jim Crow laws... E a tal proposito attendo con impazienza la traduzione di "Lovecraft Country", il penultimo romanzo del Matt Ruff di "Fool on the Hill", "Sewer, Gas & Electric", "Set This House in Order", "Bad Monkeys", "the Mirage" e l'imminente "88 Names"), anche co-protagonista attivo e vive gli avvenimenti con sincronicità e non a distanza di quasi mezzo secolo] è intelligentemente reso contemporaneo (a meno di tirare in ballo col senno di poi i cilindri di cera…) nella pellicola grazie a una registrazione su nastro magnetico effettuata dal vecchio solitario durante la sua trasformazione-assimilazione prima di morire.

 


Cast: Nicolas Cage (“sottotono” - per lo meno rispetto agli altri tre lavori citati più avanti -, ma con… “scatti”...), Joely Richardson (“Nip/Tuck”, “Millennium - the Girl with the Dragon Tattoo”), Madeleine Arthur (da tenere d’occhio...), Elliot Knight, Brendan Meyer, Tommy Chong, Julian Hilliard, Q’orianka Kilcher.
Fotografia (sicuramente l'elemento tecnico più difficile da trasportare dall'inchiostro su carta ai pixel su schermo: qui s'è scelto di utilizzare la gamma di colori della luce visibile situata in prossimità dell'intervallo della radiazione dello spettro elettromagnetico vicino all'ultravioletto): Steve Annis (“I Am Mother”). Montaggio: Brett W. Bachman (“Bitch”, “LowLife”, “Mandy”). Musiche: Colin Stetson (“Hereditary”).
Producono ACE, XYZ e Spectre Vision (Elija Wood). Distribuisce RLJE.

 


Il “paragone” con “Mandy” è puramente superficiale: genere, atmosfere, protagonista, fotografia, finanziamenti, coetaneità.
Una delle cose più spaventose del film è scoprire che la Pocahontas malickiana di Q’orianka Kilcher è tornata sana e salva dalla tournée europea sopravvivendo al vaiolo contratto durante il viaggio di ritorno alle Americhe in nave ed è diventata sindaco di un paesotto della costa est un po’ più a nord della sua Virginia.

 

 
Nicolas Cage: the Bliss of Evil, ovvero: 
- 2016: “Dog Eat Dog” di Paul Schrader (***¾-****)
- 2017: “Mom and Dad” di Brian Taylor (***¼-½)
- 2018: “Mandy” di Panos Cosmatos (***¼)
- 2019: “Color Out of Space” di Richard Stanley (***¼-½)

 

 

A occidente di Arkham le colline s'innalzano all'improvviso, tra valli e boschi profondi che non hanno mai conosciuto la scure: vi sono macchie strette e buie dove gli alberi si inerpicano in maniera fantastica e ruscelli che non hanno mai visto la luce del sole. Sui pendii più dolci sorgono antiche fattorie di pietra e tozzi cottage coperti di musco che meditano da secoli sui segreti del New England, al riparo di grandi costoni di roccia: si tratta, per la maggior parte, di costruzioni ormai disabitate, con grandi comignoli in rovina e i fianchi d'embrice pericolosamente gonfi sotto i tetti bassi a doppio spiovente.
La gente che ci abitava è andata via, e ai forestieri quei posti non piacciono: ci hanno provato i franco-canadesi, gli italiani e i polacchi, ma come sono venuti così se ne sono andati. Il motivo non è qualcosa che si veda, si senta o che si possa toccare, ma anzi, qualcosa che si immagina soltanto. È una regione che non fa bene all'immaginazione, e di notte non procura sonni tranquilli. Dev'essere questo che tiene alla larga i forestieri, perché con loro il vecchio Ammi Pierce* non ha mai aperto bocca su ciò che ricorda dei giorni terribili…

*La “assonanza” con “Ambrose Bierce” è da ritenersi casuale…         

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