Regia di Ettore Scola vedi scheda film
Si sa, dove falliscono le rivoluzioni non c’è posto per il tragico, una voce che emerge dal chiacchiericcio indistinto esclama: “ Siamo tutti personaggi drammatici che si manifestano solo comicamente”.
Un giudizio autorevole all’uscita del film, Lino Miccichè:
"Sembra e vuole essere una, sia pur sorridente, radiografia della condizione intellettuale e borghese, ma è soltanto un quadretto della condizione pseudointellettuale e sostanzialmente piccoloborghese dell'intellettualità cinematografica".
D’accordo sull’'intellettualità cinematografica“, ma il giudizio di Miccichè ci sembra riduttivo.
A 39 anni di distanza (il film è del 1980) La terrazza continua a sprigionare con forza la sua carica di denuncia, e lungi dall’essere “un quadretto” è piuttosto l’affresco corale di una condizione che investe un’area molto vasta, su quella terrazza romana c’è il Gotha dell’intelligencija italica di lettere, comunicazione e arti intenta a celebrare il suo De profundis.
“Bilancio dei fallimenti di una generazione, film con personaggi scelti per il loro ruolo di comunicatori che sentivano di non comunicare nulla agli altri, di non fabbricare una pubblica opinione dignitosa, cosa che sarebbe stato il dovere di un intellettuale che, con gli strumenti dei suoi studi, della sua cultura deve essere a fianco di altri che non hanno avuto la fortuna di studiare, questi personaggi sentono di non averlo fatto… Potevano fare, non hanno fatto, avevano mezzi che nella prima metà del secolo non c’erano, televisione, giornali, cinema…”
Parole di Scola in una lunga intervista del 2004 quando, 25 anni dopo, continuava a sostenere le sue ragioni (e ancora nel 2015, anno che precedette la sua morte, le ribadiva).
I premi ricevuti a Cannes non servirono, un’intera casta di politici e intellettuali di varia provenienza lo attaccarono perché si sentirono messi in croce, ingiustamente, secondo loro.
Non si parlava del film in quanto film, ma “…vollero intervenire tutti, anche quelli che col cinema non c’entravano, e la cosa durò per settimane, anzi, per un semestre, da Bocca, Scalfari, Beniamino Placido, Rossanda ecc. perché ognuno si sentì chiamato in causa. Quello che si offese di più fu Pajetta, indignato, ed era giusto che lo fosse, era stato “il ragazzo rosso” del PCI, quello che mai aveva accettato compromessi … un uomo tutto d’un pezzo, un eroe dell’appartenenza.
“Che cazzo di comunista sei, tu butti fango su tutti noi… “
Un altro fu Pertini…
“Sei un borghese, fai film depressivi, questo non tiene conto della Resistenza”.
Ma il discorso non era ad personam, cercò di far capire il regista, ogni fenomeno ha regole ed eccezioni né volle alimentare polemiche inutili e infruttuose, quello che si vede nel film non è oggetto di discussione, è fotografia di una realtà indiscutibile, oggettiva e lampante, e così dopo un po’ tutte le anime belle indignate, a torto o a ragione, provvidero a dimenticarlo.
Chi non ha dimenticato quel j’accuse alla casta degli intellettuali che tradirono il loro compito, che svendettero la loro anima ai soldi, al potere, al nulla diventato tendenza, è il tempo che ha continuato a tirare le sue conseguenze, facendo crescere mali che allora si profilavano e che forse potevano essere arginati, certo non sanati, i problemi sono sempre enormi e sfaccettati e un Paese in cui la cura del “particulare” guicciardiniano sembra iscritto nel DNA non cambia facilmente né si converte, ma evitare compromissioni vergognose, cambi di bandiera opportunistici, creazione di modelli negativi per le generazioni a seguire, quello sì, si poteva fare.
Solo due ragazzi figurano nel cast, si aggirano come ectoplasmi fra i convitati, nessuno sembra vederli, mondi separati da abissi di indifferenza.
Scola cita anche Pasolini che nel girone dei borghesi/intellettuali ritrae quelli che sapevano e potevano fare e non hanno fatto:
“Naturalmente anche loro pagano il fallimento del loro ruolo, e lo pagano con la tristezza, la depressione, con overdose di ironia, non riescono ad aprire bocca senza essere ironici, e questo è uno scudo per difendersi, per sopravvivere, perché sanno di aver sbagliato tutto, sanno di aver mancato il loro ruolo, la loro missione. Gli è passata la “passione”, ed è quello che accomuna questi cinque personaggi chiave, non hanno più sentimenti per il loro lavoro e la pagano anche sul piano privato, sentimentale…
Gli intellettuali possono essere accusati di questo, di mancata assistenza, di soccorso mancato. Oggi però le cose sono andate avanti e in fondo possiamo dire che quella fu una bella generazione se paragonata alla generazione dei Ferrara e degli Adornato”.
La terrazza oggi va visto e rivisto, aiuta a capire perché siamo diventati quel che siamo.
Il film ha la forza dell’allegoria, il pregio dello stile che plasma le immagini e ne fa espressione di un mondo, è specchio di un’epoca, sintesi di una fase storica, monito alle generazioni future.
Nell’immediato dopoguerra, ma anche durante quegli anni tremendi, dice Scola, una generazione di uomini attenti inventò un cinema di denuncia e di riscatto, Visconti, De Sica, Rossellini, poco più tardi Fellini e Pasolini, resero un grande servizio all’Italia, oltre che all’arte cinematografica, furono uomini capaci di non svendere il loro mestiere e interpretare bene il loro ruolo.
Dopo di loro il diluvio, e un mezzo diluvio si scatena anche su quella terrazza, l’ultima sera, così che tutti debbono rientrare pigolando il loro chiacchiericcio inutile e far ressa intorno alle succulente pietanze di cui l’elegante madame padrona di casa è molto prodiga.
Chi e cosa mette in scena Scola in due ore e mezza?
C’è un nucleo centrale, uno spazio fisico, la “terrazza romana”, luogo di raccolta del bel mondo a partire dagli anni della ripresa, salotto in cui bisognava esserci per sentirsi parte del milieu che contava e tessere i rapporti giusti.
Rapporti totalmente autoreferenziali, nel tempo destinati a diventare la cancrena di un sistema che di democratico manteneva solo il nome.
Nella terrazza arredata con opulenza si raccolgono gli invitati, arriva la padrona di casa e invita al buffet. Il gruppo, ripreso di spalle alla Buñuel, si avvia all’interno del living room. La scena si ripete, identica, nell’incontro successivo, stessi protagonisti, stessi discorsi, aria più pesante, disperazioni in corso, ma certo cambia il menu.
Da questo nucleo Scola dipana cinque quadri, finali di partita più che storie, tutto è già accaduto a monte e ciò che interessa al regista è registrare storie interiori, stati d’animo, fallimenti diversi di vite molto simili. Le vicende parallele si ricongiungono nel finale in una struttura circolare che è segno tangibile dell’ impossibilità di un’evoluzione, ciò che è stato sarà, l’immobilismo genera solo sé stesso.
“A che ora è la rivoluzione?Come si deve venire? Già mangiati?”, battutaccia mordace del deputato comunista alla squinzietta dell’ultrasinistra che lo sta sbertucciando.
La frase fa parte di quel continuo ironizzare su tutto per difendersi, alzando muri per coprire inettitudine, inquietudine e disfatta.
Gli uomini (e le donne) scelti per dare vita ai cinque quadri sono simboli di riferimento a ruoli professionali a cui in genere si demanda il potere di “fare opinione”.
Sono un onorevole comunista, Mario (Gassman), un funzionario RAI, Sergio (Reggiani), un produttore cinematografico, Amedeo (Tognazzi) uno sceneggiatore, Enrico (Trintignant) un giornalista, Luigi (Mastroianni).
Intorno a loro girano come falene alcune donne di pasta non dissimile.
La moglie (Vukotic) di Enrico lo sceneggiatore (Trintignant) è l’ombra del marito. Copre, appiana, suggerisce soluzioni, tenta di arginare le nevrosi del marito, se crolla lui crollano insieme, e questo non va.
L’ex moglie (Gravina) del giornalista (Mastroianni) è una donna sicura di sé, molto engagé eattiva nel mondo della carta stampata. Ora è incerta se riprendersi quel marito deprimente o mollarlo definitivamente.
Un’attrice giovane (Sandrelli) si proclama con piglio arrogante di pasionaria più a sinistra del grigio e spento onorevole di mezza età avanzata (Gassman), lo insulta a sangue e poi ci va a letto. In fondo ha problemi di realizzazione affettiva e piange ogni giorno a orari fissi. Scola colloca il primo appuntamento fra i ruderi del Foro romano, e certo non è una scelta casuale.
Infine la moglie (Colli) del produttore (Tognazzi), attricetta di scarso credito che disprezza profondamente il marito finanziatore del trash più trash che c’è, compreso il porno, pur godendo degli agi che le offre. Lei però ambisce ad una collocazione nel mondo del cinema impegnato, corregge parole e pronuncia al marito zotico e ricco, e finisce per imporgli un giovane regista cervellone che sembra la caricatura di sé stesso, una delle macchiette meglio riuscite della new wave di giovani leve del cinema.
Il coro circostante è denso di facce in cui si riconoscono nomi noti della cultura anni ’80 che volentieri si prestarono a Scola e figurano tutti fra i credits con il loro nome.
La fotografia di Pasqualino De Santis, la musica di Armando Trovajoli e un famoso brano di Vivaldi sono il corollario di una sceneggiatura perfetta, scritta da Scola, Age & Scarpelli con leggerezza affabulatoria capace di far scorrere il tempo senza pause né peso.
Scivoliamo fra quelle maschere, assistiamo ai loro tracolli, alle loro performance spesso ridicole, certo penose, ascoltiamo un chiacchiericcio mondano vuoto, il fallimento delle rivoluzioni è servito, un piatto di pasta e fagioli e una porzione di millefoglie valgono bene una messa!
Lontano dal manifesto politico, mai sede di enfasi o propaganda, il mondo di Scola è una gabbia con sbarre invisibili dove i personaggi svolazzano a vuoto intorno a sé stessi.
Di tanto in tanto qualcuno sbrocca, si accende una rissa, ci si insulta con molta educazione, ci si disprezza tutti perché tutti disprezzano sé stessi.
“Come si era felici quando eravate tutti imbecilli!” esclama Gassman /Dorazio, il deputato ex partigiano, deluso del PCI, accantonato dalle gerarchie del Partito e in cerca, pur con tante esitazioni, di evasioni sentimentali.
“E’ un compagno che non sa stare in compagnia” dicono di lui, mentre va in sottofondo il Dalla del “Caro amico ti scrivo…”, unico manifesto programmatico possibile di una rivoluzione miseramente abortita.
Ogni personaggio brilla di luce propria, ognuno è protagonista di vicende altamente drammatiche che si sgonfiano come palloni bucati: il funzionario RAI anoressico per scelta suicida sarà trovato morto sotto un cumulo di neve finta in un teatro di prove, il deputato farà un inopportuno discorso sulla felicità dell’individuo in pieno congresso di Partito intento a discutere di “Centralismo Democratico”, il produttore finanzierà il film del regista “impegnato” e invece del suo porno gioioso e sporcaccione si taglieranno falli che neanche in un film di Ferreri! Enrico lo sceneggiatore, cultore di Pirandello, Diderot e Wittgenstein, fautore del potere della risata come mezzo di trasgressione e della satira come miccia per svegliare le masse, deve soccombere e scrivere cose “di pancia” , destinate a vellicare i bassi istinti delle masse. Finirà per distruggersi un dito nel temperamatite elettrico e lo porteranno alla neuro.
Si sa, dove falliscono le rivoluzioni non c’è posto per il tragico, una voce che emerge dal chiacchiericcio indistinto esclama: “ Siamo tutti personaggi drammatici che si manifestano solo comicamente”.
E allora amen, il meglio è passato diceva Flaiano.
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