Regia di George A. Romero vedi scheda film
E’ la morte, baby !
Cinquant’anni fa, dove tutto iniziò, la vita era in bianco e nero. Il bianco delle vesti e delle case, delle immagini slavate filmate con cinepresa 35 mm e (praticamente) senza budget a disposizione, con l’utilizzo di attori professionisti e non. La riproposizione in un’area estiva affollata anche da qualche spettatore (truccato da) zombie, ha riportato alle emozioni di una prima volta: la figurina caracollante che fa capolino sullo sfondo di un’inquadratura cimiteriale, apparentemente innocua e invece di insospettabile voracità, introdurrà un cambio di passo alla narrazione horror.
E ci riconsegna una creatura (lo zombie) al suo grado zero: specchio degli “umani” con i quali viene a contatto, ne tira fuori il meglio o il peggio, a seconda della predisposizione o delle circostanze. Inesorabile e più forte di come verrà rappresentata in futuro (anche da Romero stesso), quasi “educata” nel soddisfare l’insaziabile fame, rivela un legame ancora intatto con l’essenza pre-mortem: la solidità dell’uomo o della donna sixties (piantato e massiccio lui, dai fianchi larghi lei) e ricordi ancestrali che gli fanno (ancora) temere il fuoco e le esplosioni.
Argomentazioni seminali, come l’utilizzo degli intermezzi televisivi e dei programmi radiofonici quali narratori dell’evolversi dell’epidemia zombie, che hanno influenzato tutti i lavori a venire, anche nell’epoca moderna: da Snyder alle serie tv (The Walking Dead, la costola “Fear the walking Dead”), da “28 giorni dopo” di Danny Boyle ai simpatici Fido di Andrew Currie, “Shaun of the dead” di Edgar Wright e “Zombieland” di Ruben Fleischer. Che il Maestro adatterà nel tempo ancora fino al 2007, dove con “Diary of the Dead" istituzionalizzerà l’avvento dell’iper-narrazione visiva moderna.
Ma qui si era nel fatidico 1968 e, seppur spesso negata dallo stesso regista, la valenza politica del suo lavoro, la rappresentazione allegorica di una società perbenista e ipocrita in decomposizione morale, appare palese. E poi affidare la parte del protagonista ad un nero (Duane Jones) che rappresenta, da subito, la figura fulcro della narrazione, appare se non rivoluzionaria senz’altro coraggiosa; eroe “irregolare” acriticamente accettato come leader da tutte le figure di contorno, con la sola eccezione di Barbara/Judith O’Dea (persa nella sua paranoia di terrore) che mostra un inziale timore nei suoi confronti, e di Harry; il quale è il vero raccordo con la “restaurazione” del beffardo finale.
“Combatti i morti, temi i vivi.”
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