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Arrapaho

Regia di Ciro Ippolito vedi scheda film

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Raffaele92

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La recensione su Arrapaho

di Raffaele92
1 stelle

Cialtroneria delirante, collage insulso di sketch, “Arrapaho” è il film più brutto della Storia del Cinema secondo molti. Se non il peggiore in assoluto, poco ci manca: basti pensare che “Quel gran pezzo dell’Ubalda” al confronto sembra un film di Pasolini! “Disastrosamente diretto da Ciro Ippolito”: i titoli di coda parlano chiaro, ma più che una battuta suona come la tristissima constatazione di un’opera che conserva però il vantaggio di una forte consapevolezza di sé.

Non stupisce quindi che il suddetto regista (?) abbia diretto (??) anche film del calibro di “Lacrime napulitane” (1981) e “Uccelli d’Italia” (1984), per non parlare poi di quella chicca che è “Alien 2 – Sulla Terra” (1980), a paragone del quale “Zombi 2” di Lucio Fulci sembra “La notte dei morti viventi” di Romero.

Eppure vien da chiedersi cosa sia a far cadere “Arrapaho” così tanto più in basso rispetto a tutta la storica schiera di trash “chiappa & spada” (come si suole chiamarli) che hanno popolato il cinema italiano prima di lui? Volendo provare a dare una risposta, dico: la volgarità. Quella che emerge dai ripetuti peti, dal monologo di insulti in dialetto napoletano durante la veglia funebre di Avida (si ride anche qui, ma a denti stretti), da battute dai livelli infimi (“Ti vedo molto nervosa, che hai?” “Sono quattro giorni che non caco!”) e da tantissimi altri fallimentari tentativi di resuscitare un genere morto (“Arrapaho”, infatti, si colloca esattamente tra i cosiddetti “cul movie” alla Lino Banfi, Fenech, Bombolo & co., e il nuovo cinema comico vacanziero portatore di una fresca generazione di attori quali De Sica, Calà, Boldi, e via dicendo).

Certo, l’idea di far parlare i nativi americani nel suddetto dialetto è già di per sé la premessa squallida di un’operazione in grado di far simultaneamente rivoltare nella tomba tutti (ma proprio tutti) i cineasti che furono.

Va però detto: nella sua imbarazzante sgangheratezza dimostra di ambire alla assidua quanto costante ricerca di idee (ambizione della quale le tantissime copie delle svariate infermiere, insegnanti e dottoresse passate erano prive), al tentativo sincero quanto disperato di aggrapparsi a una forma, di dare significato alla frequente reiterazione dei propri elementi, di dire qualcosa per far ridere o – viceversa – far ridere per dire qualcosa. Alla fine di tutti questi sforzi, si scopre però solo un gran vuoto che è sì narrativo, ma soprattutto (specchio del) sociale. Ecco che quindi le suddette idee (barlumi fiochi) si rivelano pasticciate, sfruttate male o per niente, affossate dalla (nella) volgarità, specchio di un’assenza narrativa generatrice di un minestrone squallidamente frenetico, frammentato, interrotto, inafferrabile e confuso.

Il suo essere così disordinato, disastrosamente improvvisato nonché bassamente grossolano potrebbero apparire come elementi in grado di portarlo al proprio palese (quanto mancato) obiettivo ludico, mentre in “Arrapaho” non vi è nulla che vada a vantaggio della comicità, né che sia tantomeno in grado di lenire la noia complessiva (e ciò nonostante la modestissima durata). Eppure, l’intento di far qualcosa di completamente diverso e in grado di spiccare sulle produzioni analoghe, è a suo modo del tutto riuscito. Se così non fosse, “Arrapaho” non verrebbe unanimemente considerato come il sovrano assoluto degli scult quale è. Questo, almeno, va riconosciuto come dato oggettivo.

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