Regia di Peter Hyams vedi scheda film
A tutto c’è un limite. Per fare carriera è indispensabile deglutire bocconi amari, accettando dei compromessi, per quanto possano essere dolorosi e scatenare pensieri asfissianti.
C’è chi si lascia scivolare di dosso qualsiasi ingiustizia, facendo il pesce in barile con lo scopo di scalare posizioni e garantirsi il successo, e chi, arrivato a un punto di non ritorno, dissente, uscendo allo scoperto.
Condannato a morte per mancanza di indizi è una pellicola del 1983 che, purtroppo, è cupamente attuale, sperando ci siano in circolazione un maggior numero di persone in grado di reagire. Di cambiare direzione andando a contrastare un sistema che, in troppi casi, non tutela in alcun modo il bene comune, imbrigliato com’è in un groviglio di normative che complicano la vita alle persone normali agevolando contestualmente chi si fa beffe della giustizia per continuare impunemente a condurre i propri vili interessi.
Tutto sembra arridere al giovane giudice Steven Hardin (Michael Douglas). Ha una bella moglie (Sharon Gless) e un buon rapporto con Benjamin Caulfield (Hal Holbrook), un esperto collega che potrebbe aprirgli le porte con vista sulla via del successo.
Quando le ingiustizie, che dall’alto della sua posizione è costretto continuamente ad assecondare, si accumulano, sceglie la strada più tortuosa, tesa a scoperchiare chi rema contro l’interesse della comunità.
Troverà una sponda affidabile nel risoluto detective Harry Lowes (Yaphet Kotto).
Con The star chamber, titolo originale assai più calzante della bislunga traduzione nostrana, Peter Hyams abbandona l’ambito fantascientifico, che gli aveva assicurato considerevoli soddisfazioni con Capricorn one e Atmosfera zero, per tornare a sporcarsi le mani sulle strade delle città americane (come nel suo esordio, Mani sporche sulla città).
Trattasi di un film dotato di un’infarinatura solida e un linguaggio inequivocabile, che mescola il tribunale e la strada, due compartimenti stagni, con il ruolo del giudice che, posto all’interno di un sistema fallace e contorto, è semplicemente un arbitro impossibilitato dal fischiare un evidente fallo commesso dalla squadra dei cattivi che, dal canto loro, rispondono alla convocazione mostrandosi in forma smagliante.
Insomma, non è più questione di stabilire cosa sia giusto o sbagliato, ma semplicemente di seguire quanto stabilito dalla legge, anche quando sottostare a essa obbliga il rispetto di procedure e cavilli che lasciano in libertà dei criminali, assodati come tali oltre ogni ragionevole dubbio.
Un tessuto ben intrecciato e consapevole che, pur senza (nemmeno avvicinarsi a) toccare il cielo con un dito, consente a The star chamber di lasciare il segno e rimanere – nonostante sottolineature che non lasciano nulla al caso - tuttora valido, potendo inoltre annoverare un cast che, a un convincentemente battagliero Michael Douglas, affianca la raggelante protervia offerta dall’impeccabile interpretazione di Hal Holbrook e la dedizione rappresentata con robusta aderenza da Yaphet Kotto.
In sintesi, The star chamber è la classica produzione di media caratura che fermenta rabbiosamente, riuscendo a varcare la soglia dei propri limiti congiunturali. Un traguardo tagliato in virtù della sporcizia morale che snocciola tra crimini aberranti e loschi figuri, di un cast puntuale e amalgamato, di uno svolgimento privo di rovinose sbavature, degli incandescenti confronti/scontri tra Michal Douglas e Hal Holbrook e di un pirotecnico (pre)finale, ambientato all’interno di uno stabile diroccato.
Vigoroso e indignato. Con giusta ragione.
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