Regia di Theo Anghelopoulos vedi scheda film
Compendio dei tanti pregi e dei pochi difetti di uno dei maggiori cineasti degli ultimi 40 anni, “L’eternità e un giorno” dispiega tutto l’universo poetico del compianto regista ellenico: il tema dell’esilio (geografico e sentimentale), la pregnanza del ricordo, il rimpianto e la nostalgia, i ricorrenti motivi della partenza, del mare, della danza, il riaffiorare di reminiscenze storico-politiche nella meditazione esistenziale, letteratura e musica come imprescindibili supporti espressivi in costante dialettica con il fluire dell’immagine, la compressione del Tempo (non solo quello storico, ma anche quello della coscienza) nello Spazio ininterrotto del piano-sequenza. Ma non si tratta, come affermano i detrattori, di elitario manierismo, in quanto Angelopoulos non perde mai di vista la realtà, anche quella più drammatica, e non teme di accogliere, all’interno della sua nobile estetica, l’orrore della Storia contemporanea. Co-protagonista del film è, infatti, un piccolo clandestino albanese (erano gli anni 90…), anche lui, a modo suo, “esiliato”. Il grande tema, reale e metaforico, dell’emigrazione, dell’essere stranieri, del non poter comunicare nella propria lingua, si sdoppia dunque, e lo sbando esistenziale dell’anziano scrittore Alexandros si riflette in quello materiale del bambino (e politico dell’intera Europa). Qualcuno potrebbe accusare Angelopoulos di aver “poeticizzato”, ammorbidito, il dramma del piccolo profugo. In realtà, nella rappresentazione di questo personaggio così carico di cronaca, il regista si rivela coerente con la sua poetica dell’ “accoglienza”, in senso letterale: Angelopoulos “accoglie” nel suo universo poetico, fatto di distacco e riflessione, calma olimpica e tentazioni epiche, anche la cruda realtà quotidiana; pertanto quello che potrebbe essere scambiato per uno sguardo estetizzante è invece l’esito di una accorata immersione all’interno di un’anima innocente, sporcata dalla barbarie umana. La poesia dunque non abbellisce la realtà, né quest’ultima inquina la prima: semplicemente, la poesia include la realtà (al contrario di Fellini, dove invece è la realtà che include, anzi genera, la poesia). Alexandros si imbatte in peregrinazioni che rivelano lo squallore della Grecia contemporanea, post-industriale, col suo paesaggio di super-strade trafficate, periferie degradate, palazzi fatiscenti, come i maestri Rossellini ed Antonioni; ma il grigio e il gelo del presente sono alternatati al nitore e alla solarità dell’immaginazione, di balli in spiaggia, viaggi in barca, musica e donne sensuali scatenate nella danza, per le quali Angelopoulos cesella sontuose sequenze di gruppo, fra Visconti e Fellini. C’è tanta cine-Italia in questo film, ma anche sapori slavi: una sfolgorante combinazione di cultura mediterranea e balcanica. Ci sono pagine di grande espressività, affidate ai consueti inimitabili piano-sequenza, ma nell’ultima parte il tessuto si sfilaccia, le invenzioni si fanno meno ispirate, la poesia si fa talora “poeticismo” e Angelopoulos pare perdere la bussola. C’è un che di incompiuto in questo film, come la poesia di Foscolo (personaggio meta-letterario, in questo film), come poi la carriera di Angelopoulos (tragicamente morto investito da un’auto mentre girava il suo ultimo film 2 anni fa). Si resta, come Alexandros, bloccati in quel senso di fallimento, frustrati da un viaggio verso una felicità illusoria, sfiancati dall’affannosa ricerca di una comunicazione impossibile: ma la bellezza cine-poetica dei versi visivi di Angelopoulos, a differenza delle parole “comprate” da Foscolo, non ha prezzo.
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