Regia di Spike Lee vedi scheda film
Per un amante dello sport questo film è un vero gioiellino: vibrante e con del sentimentalismo ben calibrato, ma per i fan di Spike Lee (me compreso) è una mezza delusione visto che si tratta di uno dei suoi film più mainstream che oltre l'aspetto sportivo ha davvero poco da dire e criticare, senza impegno se non per dare semplice intrattenimento.
Spike Lee che dirige un film sullo sport? Inizialmente, conoscendo molto bene questo regista fortemente impegnato nella lotta contro il razzismo, fui sorpreso di vederlo affrontare argomenti all'apparenza così tranquilli; eppure, può non sembrare, ma Spike Lee oltre alla politica e al sociale è anche grande appassionato di basket, al punto tale che erano 10 anni che cercava di dirigere un film del genere.
Detto fatto: gli si presenta l'occasione e realizza così il film in questione con attore protagonista il vero cestista dell'NBA Ray Allen.
Per niente deludente, ma neppure il risultato che ci si aspettava da uno come Lee, ma andiamo con ordine.
Guardando il film nell'ottica di "pellicola fatta per ritrarre, omaggiare e criticare lo sport del basket negli Stati Uniti", abbiamo un ottimo risultato, anzi, forse uno dei migliori riguardo questo specifico sport. Lee conosce bene i sobborghi afroamericani e come ben pochi altri entra all'interno della comunità nera mostrando cosa significa la pallacanestro per i giovani ragazzini che si ritrovano ogni giorno al campetto del quartiere: una speranza. Essa non sempre sta a significare il realizzarsi dei propri sogni, ma piuttosto sacrificare la propria infanzia per essere il migliore di tutti, sempre e a qualunque ora, persino durante la notte costretti da un padre invasato (interpretato da un buon Denzel Washington, purtroppo poco sfruttato a favore del ben più acerbo Ray Allen) a fare più canestri possibili e a vincere non solo sul campo, ma nella vita.
Ed una volta raggiunta la fama? Lee non è il tipo di persona che crede nel sogno americano e quindi ci mostra con tutta la schiettezza possibile i numerosi diavoli tentatori che pur di accaparrarsi un giovane talentuoso arrivano a comportarsi quasi come i coloni facevano con le tribù indigene di America: offrendo specchietti per le allodole che nella nostra epoca non sono più chincaglierie quanto macchinoni, case di lusso e donne attraenti.
Spike Lee: "A questi giovani offrono una macchina, soldi, qualche gioiello e l'esca di qualche figa. Se sei il più grande giocatore di tutti i licei della nazione puoi star sicuro che arriveranno a sventolarti qualche paio di mutandine sotto il naso"
Se dunque Lee azzecca pienamente come mostrare al pubblico una società sportiva mefitica, in continua competizione ed in cui la cultura è stata messa da parte a favore dello sport, c'è però un risvolto amaro che resterà addosso per tutto il film, cioè, che non sembra affatto un film di Spike Lee. Intendiamoci, il messaggio c'è tutto, ma il regista sembra aver abbandonato ciò che lo caratterizzava di più: il suo modo di farci vedere la cruda e dura realtà senza alcuna restrizione morale.
Qui non è così: Lee punta sì il dito contro un certo tipo di istituzione, ma lo fa quasi garbatamente senza la sua consueta rabbia scandalistica e con poca enfasi, tralasciando il tutto ai margini della narrazione come se lasciasse da parte il suo spirito combattivo per rassegnarsi nel solito pensiero del "tanto fanno tutti così".
Il punto focale è l'aspetto poetico del basket, il quale è realizzato con ottime coreografie ed il rapporto padre-figlio, ma sinceramente dopo metà film la sceneggiatura cade in ripetizioni senza stupire lo spettatore.
Per dirla in parole povere: dopo un po' la musica che accompagna palle da basket al rallenti in scene particolarmente simboliche annoiano, perchè oltre alla bellezza dei movimenti e ad un rapporto familiare difficile già ampiamente affrontato in lungometraggi ben più notevoli, non c'è molto altro da dire.
Pure il resto degli aspetti tecnici sembra quasi tenuto a freno dall'ottica più pacata di Spike Lee, escluso forse un montaggio davvero ben realizzato che riesce a sintetizzare un tortuoso e complicato rapporto tra Jake e suo figlio Jesus. Tecnica che nelle ultime sequenze fa miracoli mostrandoci parallelamente il florido inizio di carriera di Jesus contro il ritorno al buio penitenziario da parte del padre, accennando a malapena alla tematica del tempo a nostra disposizione che Lee affronterà meglio nel 2002 con "La 25° Ora".
Per un amante del basket e dello sport in generale, questo film è un vero gioiellino: vibrante, pieno di colore e con del sentimentalismo ben calibrato, ma per i fan di Spike Lee (me compreso) sarà una mezza delusione visto che si tratta di uno dei suoi film più mainstream che oltre l'aspetto sportivo ha davvero poco da dire e criticare, senza alcun reale impegno concettuale, registico o tecnico, semplice intrattenimento che non a caso sarà uno dei più alti guadagni al botteghino del regista.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta