Regia di Bernardo Bertolucci vedi scheda film
"J’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais" I versi di Charles Baudelaire (À une passante) accompagnano da sempre la mia visione del film.
La rue assourdissante autour de moi hurlait […]
Paul (Marlon Brando) cammina lungo un viadotto che attraversa la Senna, scosso dal frastuono assordante della linea esterna del Metro: il suo volto è pietrificato dal dolore: la moglie Rosa (Veronica Lazar) si è inaspettamente uccisa.
Sul suo stesso percorso incontra fugacemente – un éclair… puis la nuit! – Jeanne (Marie Schneider), la bella giovinetta che si affretta a sorpassarlo, voltandosi, però, a guardarlo incuriosita dal suo gesticolare solitario. I due si incontreranno ancora, nello stesso modo casuale e fugace, all’interno di un caffé: lei è lì per telefonare; si ritroveranno infine nell’appartamento vuoto che entrambi vorrebbero affittare e che diventerà lo scenario della loro passione amorosa.
Quello che sappiamo di loro emerge a poco a poco dall’intrecciarsi di più racconti che si inseriscono con sorprendente naturalezza nel film: Paul è un americano squattrinato che, sposando Rosa e sistemandosi nell’infimo albergo di lei, ha risolto il problema del come vivere a Parigi, accettando tacitamente che la donna alloggi Marcel (Massimo Girotti), il proprio amante.
Jeanne è invece fidanzata con Tom (Jean-Pierre Léaud), aspirante regista che ora ha un contratto con la televisione per girare un film che dovrebbe parlare di lei, della sua storia molto “normale” di giovane cresciuta in una famiglia di piccoli borghesi conservatori, in una casa di campagna, appena fuori Parigi ancora piena dei ricordi della carriera militare del padre.
L’esistenza di entrambi, dunque, si era svolta, fino a un certo punto, secondo un copione abbastanza risaputo, recitato senza entusiasmo, dando per scontato il sacrificio delle più profonde e naturali pulsioni sull’altare della “normalità”, come quel Marcello, che Bertolucci aveva raccontato nel film di due anni prima, Il conformista.
La morte di Rosa, la coscienza dell’inevitabile invecchiare, l’incontro con Jeanne – ancora infantile nel volto espressivo e nell’innocenza sexy del vestitino cortissimo, ricoperto dal lungo cappotto – ora insinuano in Paul un’improvvisa voglia di voltare pagina, di vivere una storia d’amore vero, senza compromessi, un amore “assoluto”, cioè sciolto da ogni legame di spazio e di tempo, in quella sorta di Eden senza giardino che diventerà l’appartamento degli incontri con lei.
Dove ingiallite coperte celavano le tracce delle vite di chi era vissuto in quelle stanze, anch’essi avrebbero celato nome e passato e qualsiasi altro elemento potenzialmente rivelatore della loro individuale identità, diventando pura energia, vitalità primigenia e innocente, diretta esclusivamente a ricercare nell’altro gioia e piacere, senza costrizioni o norme, come se, rifuggendo dal principio di realtà, il piacere allo stato puro offrisse agli amanti la condizione per realizzare il sogno della più totale libertà, il non luogo in cui ci si può rifugiare e costruire un presente di felicità pura senza memoria e senza progetti.
Eppure, l’insoddisfazione è in agguato: la buffa ricerca di un linguaggio “naturale”, evocativo dei richiami degli animali innamorati, non colma il senso di vuoto e di solitudine che si impadronisce di loro dopo l’amore, fin dal loro primo incontro emblematico leitmotiv del film, suggerito dalle tavole di Francis Bacon che significativamente accompagnano i titoli di testa.
L’amore è, infatti, più complicato di quello immaginato dai due innamorati: non si accontenta della sola conoscenza carnale, né della complicità sessuale, vuole conoscere tutto dell’altro, della sua storia dei suoi sogni dei suoi progetti, poiché tende a imbrigliarlo in una prospettiva temporale che ne condizioni il futuro. La realtà, cacciata fuori dal bow window parigino, pertanto, non tarderà a presentarsi prepotentemente, facendo tragicamente fallire il tentativo di felicità senza storia di Paul e di Jeanne.
Ultimo tango a Parigi nel 2022 avrà cinquant’anni.
E’ stato uno dei più celebri film del nostro cinema, per motivi che, purtroppo, hanno avuto poco a che vedere con la sua straordinaria e complessa bellezza: le vicende giudiziarie che ne hanno determinato il sequestro, nonché la condanna definitiva al rogo (!), coll’ eccezione di una sola copia, lo hanno circondato di un’aura morbosa, che non ha reso giustizia alla sua qualità artistica e all’impegno profuso da quanti ci hanno lavorato con cultura e intelligenza: il suo regista in primo luogo, che ha duramente pagato la propria libertà creativa con la privazione, per ben cinque anni, dei diritti politici, oltre che con l’ostracismo culturale che ancora perdura, sotto le mentite spoglie delle querule lamentazioni di molte femministe del Me-Too.
Il film nasce da un soggetto di Agnès Varda e dello stesso regista che lo sceneggiò insieme a Franco Arcalli, avvalendosi del montaggio di Roberto Perpignani. La bella fotografia è di Vittorio Storaro; la musica di Gato Barbieri.
Bertolucci ha dunque splendidamente diretto e coordinato uno staff di grandi collaboratori, decisivi per la riuscita dell’opera, e ha saputo utilizzare al meglio i meravigliosi interpreti che hanno dato vita a personaggi indimenticabili.
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