Regia di Bernardo Bertolucci vedi scheda film
Capolavoro di sinestesia fra immagini e sonorità che tessono una trama a maglie sempre più fitte, è l’ultimo tango di un’epoca che non riesce più a dirsi nulla.
Due dipinti di Bacon sui titoli di testa, un uomo (Uomo in decomposizione) e una donna nella loro solitudine, figure distorte da una contrazione dolorosa, smarrite nell’angoscia, una sdraiata su un letto, l’altra seduta su una sedia.
Parte la world music di Gato Barbieri, quel sax che ti punta e ti graffia fin dai primi accordi.
Paul (Marlon Brando) preme furiosamente le mani sulle orecchie sotto un ponte di Parigi, uno spasmo gli contrae la faccia, l’insopportabile rumore della vita, quel treno sulla rotaia in alto, l’uomo in basso, la fuga delle arcate che schiacciano.
Una ragazza (Maria Schneider) con strano cappello e lungo cappotto panna bordato di pelliccia, ampio e svolazzante, due lunghe gambe che escono da una minigonna, corre sul ponte, va di fretta, salta per non inciampare sulla ramazza del netturbino, ha un viso curioso, guance paffute di bambina cresciuta, corpo di donna.
Lo vede, è un lampo, si gira appena, va oltre.
Nell’appartamento à louer sembra di entrare nello studio londinese di sir Francis, la stessa Bacon’s Dust nell’ accumulo di tutto quel che non serve più, lasciato alla rinfusa da chissà chi.
Paul è un oggetto rattrappito in un angolo d’ombra, Jeanne finisce lì per caso, fuori c’è Parigi, meravigliosa ancora più del possibile, con le luci e i filtri di Vittorio Storaro, ma per loro comincia in questo spazio chiuso, senza nomi e quasi senza parole, un avvitamento intorno al nulla, fino all’estinzione:
Non ho nome… Tu non ti chiami in nessun modo, e io neppure. Niente nomi… Perché non abbiam bisogno di nomi, qui. Dimenticheremo tutto, gli altri, quello che facciamo, casa nostra, tutto…
Capolavoro di sinestesia fra immagini e sonorità che tessono una trama a maglie sempre più fitte, è l’ultimo tango di un’epoca che non riesce più a dirsi nulla.
Nel primo amplesso sul pavimento, nel silenzio assoluto, due corpi che dopo rotolano lontani, c’è come un dolore, ma non quello che libera e redime, quello che schiaccia e che consuma.
Gato Barbieri e Bertolucci operano in sinergia:
Negli anni ‘60, gli anni della malattia teorica, pensavo che la funzione della musica dovesse essere autonoma in rapporto al resto del film. Chiedevo ai musicisti di comporre una musica senza far vedere loro le immagini del film. Oppure mi servivo di musiche già esistenti, Verdi oppure Schönberg.
Era un’illusione perché, in ogni modo, il risultato finale è sempre un uso convenzionale della musica. Ed è giusto che sia così. A partire da Il conformista ho chiesto ai musicisti un sincronismo tra l’immagine e la musica. Sia George Delerue per Il conformista che Gato Barbieri per Ultimo tango sono venuti spesso in moviola e il loro lavoro cominciava proprio dalla visione delle immagini e del ritmo di montaggio. In Ultimo tango la musica segue i movimenti di macchina, li precede oppure li accompagna alla ricerca di un sincronismo oppure di un contrasto. Ma il discorso può essere allargato dalla musica al film nel suo insieme. Dopo aver condannato lo “spettacolo” del cinema, con Ultimo tango cambio idea, faccio e dò “spettacolo”.(Bernardo Bertolucci)
Brando e Schneider hanno un magnetismo lirico e sensuale, i loro corpi aderiscono perfettamente, creano quel linguaggio delle immagini che si scolpisce come icona nel ricordo (per tanti anni, infatti, dovemmo solo ricordarli), il plot è un pre-testo, le storie individuali e il finale drammatico forniscono l’ordito, Ultimo tango a Parigi va oltre, è cinema nel cinema:
… faceva il pugile e gli è andata male , poi l’attore, ha trafficato nel porto di New York [Fronte del porto], ha fatto il rivoluzionario nell’America del Sud [Viva Zapata!], giornalista in Giappone [Sayonara], un giorno sbarca a Tahiti [Gli ammutinati del Bounty], s’arrangia poi arriva a Parigi e qui trova una con un po’ di soldi e la sposa…
Così la camerierina dell’albergo sintetizza la vita di Paul mentre pulisce le tracce della moglie, suicida senza motivo apparente.
Il fidanzato, quello giusto, accoglie Jeanne con abbracci e baci alla stazione (di treni, metro e stazioni sembra traboccare lo spazio esterno, la vita scorre da una rotaia all’altra), ma poi ci accorgiamo che sta girando un film d’amore e la protagonista è lei, così la scena è solo reality show.
Cinema nel cinema, la finzione più reale del reale, per un film che è stato forse troppo psicanalizzato, indagato, massacrato o esaltato.
E’ la storia di un incontro e di due mondi, ognuno con la propria infelicità o paura di esser felici, che poi è lo stesso.
E’ un modo per parlare d’amore, di quel che move il sole e l’altre stelle, o di sesso? Forse è l’uno e l’altro, o forse è troppo poco.
Disfatta esistenziale? Certo, ma anche di ultimi fuochi, perché la vita mai s’arrende.
Incontri, scontri, per un po’ si cammina affiancati, poi ci si perde, e anche questo può avvenire per caso.
Vita, allo stato puro.[1]
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[1] la sorte che nel ’76 subì il film per volere della Cassazione sembra l’ultimo, parodisticamente conseguente, movimento di estinzione dopo i titoli di coda, ma una copia rimasta salvò il film e noi dal rogo eterno!
Da citare (senza bisogno di commenti) un breve estratto della sentenza di riabilitazione del febbraio 1987:
“Amore e morte, sesso e distruzione, piacere e crisi sono i temi che fanno di Ultimo tango a Parigi un film con piena dignità di opera d’arte, soprattutto per il modo in cui questi motivi profondi vengono affrontati”.
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