Regia di George A. Romero vedi scheda film
Attenzione: quest’opinione si riferisce alla versione americana di “Dawn of the Dead”. La US Theatrical Cut che ho valutato, dunque, dura quindici minuti in più, ha un montaggio diverso (solo dopo molti anni, infatti, ho capito certi passaggi incomprensibili nell’edizione sintetizzata da Dario Argento), e alcuni brani orchestrali di background aggiuntivi.
Dopo il classico senza tempo "Night of the Living Dead" il Maestro George Romero aveva deciso che con il boom dei grandi magazzini era arrivato il momento di realizzare un nuovo capitolo della sua epopea orrorifica. Gli stilemi sono gli stessi del predecessore. Gli attori sono poco noti, ma dotati di grande carattere e carisma (nella loro carriera hanno girato tutti cinque o sei film, escludendo gli impegni teatrali), i mostri erano truccati da Tom Savini, il quale decise di dare alla cosmesi un'aura fumettosa, mettendo argutamente in contrasto un grigio cadaverico intenso della pelle dei mangia-cervelli con il rosso carminio sgorgante a fiumi negli esacerbati frangenti splatter (facendo anche uso di raffinati manichini crivellati in frazioni di secondo negli sfuggevoli fotogrammi), mentre le musiche rock/disco/ambient dei Goblin ritmavano l'azione in sottofondo apportando all'insieme atmosfere leggendarie: “Dawn of the Dead” fu un successo planetario, al di là delle censure e i tagli azzardati che animavano e turbavano i distributori europei e non. E se la gente rimaneva così raggelata e disgustata da visioni tanto forti ed estreme, allo stesso modo era suggestionata da quell’impulso di voyeurismo che portava gli spettatori ad aver voglia di essere inorriditi, di provare sgomento, seppur tramite un contesto di colori, situazioni e smembramenti raccapriccianti: Romero, con il suo modus operandi sornione e malizioso, gestisce con ingegno l’accordo tra lo humour macabro e la crudezza terrificante del gore, rapportando la messa in scena alla metafora del capitalismo americano. I morti si risvegliano e divorano le persone: i quattro protagonisti lasciano Philadelphia e trovano rifugio in un centro commerciale. Intanto le creature assetate di sangue confluiscono in quel posto rimasto nella loro memoria, poiché, quando erano in vita, venivano incitati dalla tentazione comune di buttarsi sul ben di Dio che luccicava dalle vetrine; e proprio quella struttura rappresentava l’isola dei desideri: era il luogo in cui il professionista comprava “la borsa x” o l’adolescente “il capo z”. L’istinto era quello di acquistare (rifocillarsi, saziarsi), e il la voglia di "ingazzarsi di roba" soverchiava la psiche.. in questo breve assunto risiede l'atteggiamento di deplorazione verso la società che il regista rivolge al pubblico; i singoli individui si sentono appagati nel momento in cui "trangugiano" (sbranano) la merce, e sono incapaci di controllare la loro fame ancestrale che li porta a siffatta azione: nella pellicola vengono deturpate le dinamiche che regolano tale fenomeno. Gli esseri umani, vili ed irrefrenabili usufruitori, diventano il prodotto di cui cibarsi, e gli "ambulanti" si avventano su di loro con la stessa voracità con cui si scagliavano sulla mercanzia prima di trasformarsi in zombi. Occhio però, gli sciacalli sono in agguato, e anche loro hanno “una fame” non indifferente. Non resta quindi che analizzare se siano più pericolosi e primitivi quest’ultimi o i defunti che infestano l’edificio.. I disagi, purtroppo, non finiscono qui. Viene messo in gioco pure l’individualismo dilagante, l’incapacità di sapersi organizzare con gli altri, l’inefficenza dei mass media. George Romero manifesta tutto il suo pessimismo nei confronti degli usi e costumi di un'epoca squilibrata e sull’orlo della decadenza. Questa dose cospicua di scetticismo e sconforto, verso le istituzioni e le comunità occidentali, lascia comunque uno spiraglio di speranza nel finale: continuare a lottare con pochi mezzi per la sopravvivenza è l’unica via di salvezza.
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