Regia di Aurelio Grimaldi vedi scheda film
Aurelio Grimaldi guarda a Pasolini come Pasolini guardava all'uomo: un'anima di carne che si sporca la bocca mentre divora la verità.
Messo a nudo. Forse Pasolini avrebbe voluto così. Perché affondare nella bellezza significa cogliere anche i suoi escrementi. L’amore esiste solo come passione cosciente, un istinto che, senza mezzi termini, si converte naturalmente in poesia. E non parla per frasi fatte, perché aderisce alle cose, rubando la scena ai pensieri. Questo è il ritratto di un genio dipinto con un pennello intinto nel buio dell’anima, ossia nella sua parte sporca, che nessuno ha voglia di ripulire, perché tanto laggiù nessuno ci verrà mai a trovare. Lì si accumulano, in disordine, i versi inediti non ancora formati, che pulsano di vita riflessa, avvinghiati alle voglie. Sono loro la voce disarticolata della verità. Sono loro l’uomo che è intellettuale solo in secondo grado, quando si stacca dal presente individuale per immaginare il futuro di tutti. Il film di Aurelio Grimaldi non ci sta, ad accodarsi al corteo degli acclamatori del Pasolini veggente, anticipatore dei mali moderni, profetico castigatore degli italici vizi a venire. Lo vuole, invece creatura del suo oggi, inquieta per quello che le accade adesso, non per ciò che sarà. Nell’affannosa parentesi che precede la morte, gli istanti si addensano per non passare invano, per incidere la superficie del tempo con un’infiorescenza di significati estemporanei, fatti solo per graffiare la pace, per sfidare la coerenza, per disarmonizzare ogni teoria, rendendola inadatta ad ospitare una qualsiasi morale. Questo Pasolini che tutto desidera col cuore e tutto disprezza a parole è lo spirito di una tenebra rabbiosa, nella quale il riparo è una solitudine vigile e aggressiva, ribelle ad ogni complicità, perché la sincerità più pura è guardare al mondo esclusivamente dalla propria prospettiva, prendendo l’altro come altro: un essere necessariamente e meravigliosamente diverso, che si presenta solo dall’esterno – sotto forma di un corpo, un viso, una bugia - ed è quindi nulla più che un oggetto di osservazione, di giudizio, di possesso. Sputare sul padre è un atto di (ri)conoscenza: sancisce la sua elezione a punto di riferimento, una rampa di lancio da cui proiettare in aria quei no che fanno la festa al passato, come i fuochi di Capodanno. La durezza equivale ad una gioia puntuta, seghettata da una sensibilità che si fa avanti strofinando il suo profilo ruvido e irregolare, nato così, fuori da ogni disciplina, nel contesto tagliente della lotta contro il livellamento, l’indifferenza, la banalità. In questo racconto la polemica è l’urlo uscito dalle piccole ferite delle quotidiane battaglie dell’io, che non si piega al dover essere, e quindi si deve spiegare, in una veste dettagliatamente descrittiva che risulta accusatoria ed oscena proprio perché non declamatoria, non metaforica, non riassuntiva. Il suo verbo sgorga da una sorgente primigenia, scorrendo in un linguaggio tutto nuovo, scrupolosamente esplicito, perché impossibilitato a richiamarsi a qualsivoglia codice precostituito. È il flusso del peccato originale, in cui i concetti si affollano spogliati da ogni astrazione, vomitati dalle viscere prima di passare attraverso la mente. Non c’è scandalo, in quel liquame organico, che è la sostanza ultima di noi. È il nostro estremo tributo alla concretezza. Quello che la carne ridà alla carne. E che la carne, sdegnosa, rifiuta.
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