Regia di Luciano Ligabue vedi scheda film
Un Ligabue esordiente con idee e passione, accompagnato da un team di esperti. Iniziava a deludere nella musica, ma sorprende al cinema. Peccato che anche qui la storia si ripeterà. Ma, intanto, godiamoci una storia di provincia a tratti leggera e a tratti profonda e triste. Ottimo il protagonista e alcuni dialoghi entrati nella storia del cinema.
A quanto pare, Radiofreccia è il risultato di un lavoro corale: nato da uno stimolo, anche narrativo, di Ligabue, ma traslato in immagini attraverso la mediazione di illustri aiutanti. L'umiltà del suo autore potrebbe considerarsi la principale ragione dell'ottimo risultato: mentre come cantante andava esaurendo la sua vena creativa, qui esprimeva freschezza e genuinità.
Qua e là si percepisce l'attitudine a "sforare", magari scadendo nel grottesco o nell'eccessivo, ma una mano invisibile sembra ricondurre costantemente il tutto entro binari più fermi, prevenendo i deragliamenti. Così i personaggi più caricaturali si salvano dall'esagerazione, e le "battutine" dell'altro cantante prestato al cinema, per esempio, non scadono del tutto nel patetico.
Gran parte dell'opera ruota attorno alla recitazione di Stefano Accorsi, qui nel momento migliore della sua carriera: riesce a trasmettere con estrema naturalezza le più lievi sfaccettature di un personaggio complesso e a tratti incomprensibile, rendendolo autentico e vibrante.
Vito, nei panni del cameriere, regala una nota umoristica tanto più pregiata, in quanto sottile e accennata: sorridiamo appena entra in scena, più per la conoscenza del comico, che del suo personaggio, che vive appunto di rendita.
La maggior parte del cast oscilla tra il mediocre e il sufficiente, ma in una certa misura questo contribuisce a rendere l'opera verace e plausibile.
In un certo senso, Radiofreccia rappresenta l'antitesi di Made in Italy, che ne sembrerebbe quasi un sequel, ma si rivela quasi un insulto: quegli attori, anzichè caserecci, sono esotici e patinati, e così, fatalmente, i loro personaggi. Ma qui siamo in Radiofreccia, appunto, e tutto il resto deve ancora accadere. La ripetitività, la stanchezza, l'egocentrismo del regista e del protagonista, sono di là da venire.
I nostri eroi si drogano, rubano, vanno in galera, e però conservano una sorta di innocenza di fondo: sono dei bambini che sognano l'america ("International"), con i suoi miti pop del cinema e della musica, e che però non hanno gli strumenti per colmare quel "buco grosso dentro", e così arrancano, spaccati a metà tra sogni e dura realtà, tra desideri e possibilità. Perchè in fondo "la voglia di scappare da un paese di ventimila abitanti vuol dire che hai voglia di scappare da te stesso", ma... "da te non ci scappi neanche se sei Eddy Merckx".
Romanticismo in chiave moderna, tra eroi-antieroi e miti di provincia, amori non corrisposti e compromessi elevati a scopo della vita.
Siamo quel che siamo, e potremmo fare meglio ma anche molto peggio: in fin dei conti, ognuno dovrebbe camminare nelle proprie scarpe, e sentircisi a proprio agio. Pochi ci riescono, però.
Si abbassano le luci: un'ultima riflessione, tra il profondo e il superficiale, tra l'esistenziale e il faceto. In ciascuno di noi albergano molte anime, e forse è proprio questo a renderci speciali. A patto di saperci fare pace.
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