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Tornando a casa

Regia di Hal Ashby vedi scheda film

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La recensione su Tornando a casa

di Peppe Comune
8 stelle

Luke (Jhon Voight) è un reduce dal Vietnam costretto sulla sedie a rotelle a causa di una grave ferita riportata in guerra . All’ospedale per reduci dov’è ricoverato conosce Sally (Jane Fonda), un’infermiera volontaria sposata con Bob (Bruce Dern), un ufficiale dell’esercito appena partito per il fronte. Il ribellismo anarchico di Luke attira le attenzioni di Sally e tra i due subito si instaura un tenero rapporto. Per un amore che sta nascendo un altro si sta sbiadendo, ed è quello di Sally per Bob, che ritorna dal Vietnal lievemente ferito ad una gamba e con la maturata convinzione che la guerra distrugge proprio tutto, ideali ed affetti compresi.  

 

Jane Fonda, Bruce Dern

Tornando a casa (1978): Jane Fonda, Bruce Dern

 

“Tornando a casa” di Hal Ashby è un film convintamente antimilitarista, una lucida riflessione sulla sporca abitudine degli uomini di farsi la guerra. Questa non ci viene mai mostrata per quella che è, con tutto il suo inevitabile corollario di morte e distruzione, ma solo attraverso gli effetti prodotti su quelli che veramente la combattono una guerra. A partire da quella sorta di limbo dantesco che è l’ospedale da campo che ospita i reduci di guerra, un incubatrice di nevrosi, rabbia, rancori, un distillato di illusioni mandate al macero, insomma, sempre pronto a trasformare il disincanto in odio. E qui che si incontrano Sally e Luke, che insieme a Bob rappresentano simbolicamente tre modi diversi e complementari di rapportarsi con l’idea di guerra in un paese sempre in prima linea nello scacchiere della geopolitica mondiale.

Luke incarna  la ferma opposizione alla guerra in quanto tale, rappresenta il fatto che questa non può essere considerata come un elemento necessario in quanto iscritta a pieno titolo tra le cose che accadono, ma come un qualcosa che si può tranquillamente non concepire. Luke arriva a questa convinzione, non in virtù di un idea di pacifismo fine a se stessa, scollegata dalla realtà, ma in ragione di un’esperienza diretta che lo ha visto vittima di tutta l’assurda improduttività delle logiche guerrafondaie. Matura un rapporto ostile nei riguardi del suo paese, che motiva ogni guerra come un fattore fondamentale per il mantenimento dei suoi disegni geopolitici. Ma chi l’ha fatta veramente la guerra, stando in trincea a sentire l’odore delle bombe e non a idealizzarla soltanto dall’alto di invalicabili torre d’avorio, arriva a capire che non c’è alcuna motivazione legittima che possa giustificare il male prodotto da un uomo contro un suo simile. Luke si è scoperto essere una pedina totalmente privata di autonoma volontà d’azione, prima scaraventata in una guerra dalle finalità contraddittorie, poi paralizzato, costretto a subire la benevolenza altrui. É questa carità ostentata a buon mercato a dare enormemente fastidio a Luke, questa ipocrisia di riporto che per chiunque serve a sentirsi meglio con la coscienza e a continuare a credere di vivere, nonostante tutto, “nel miglior paese del mondo”. É quanto basta per maturare in lui un rapporto ambiguo con la vita, di esserne fortemente attaccato da un lato, perché sembra bastargli aver visto in faccia la morte per farsi primo paladino delle ragioni della vita, ma di avversarla anche, quando si sente avvinto dall’indifferenza altrui, quando vorrebbe gridare al mondo che quelle sue gambe mutilate sono la firma di una sconfitta irrimediabile per il genere umano e non un simbolo da glorificare come una sorta di trofeo da esposizione . Suo perfetto contraltare è Bob, che pure ritorna provato dalla guerra, ma lui è deluso per non averla combattuta secondo i suoi desideri, di non essere riuscito a dare il suo buon contributo alla causa americana. Bob ritorna afflitto dall’esperienza di guerra perché non è riuscito a “diventare un eroe”, di dover ricevere una medaglia al merito per una ferita che si è fatta da solo in maniera banale. Al suo ritorno, sente di aver perso tutto sotto il peso di una menzogna istituzionalizzata : moglie, onore e fede negli ideali americani. Ma, diversamente da Luke, continua a credere nella bontà assoluta dei valori fondativi del suo paese, nella guerra come necessario momento di crescita dell’uomo. Bob incarna un conservatorismo privo di sbocchi vitalistici, attaccato ai suoi valori rassicuranri. Perciò, il senso di totale fallimento di cui si sente circondato, piuttosto che partorire in lui un diverso modo di concepire il proprio ruolo nel mondo, si trasforma in un’irreversibile distacco dalla vita. Dicotomia questa tra Luke e Bob resa emblematicamente nel toccante finale. Tra i due c’è Sally, il cui andamento esistenziale rispecchia l’orientamento narrativo (ed ideologico evidentemente) impresso al film da Hal Ashby. Sally ama Bob, ma quando questi parte per il Vietnam cede volentieri alle lusinghe di Luke (che si scopre essere un suo ammiratore sin dai tempi del college). Stando con il “mutilato “, la donna sembra assorbirne tutta la voglia di ricollegarsi al senso autentico della vita. Voglia evidentemente sorta in Luke proprio dalla sua vicinanza con lei, in un rapporto di palese interdipendenza quindi, che trasforma Sally, da semplice crocerossina da esercito della salvezza, a donna capace di ridare vigore ad un’esistenza spenta. Trasformazione che ha una fondamentale portata simbolica, perché ci aiuta a capire la presa di coscienza maturata in Sally che passa, dal patriottismo fiero del marito, al pacifismo anarcoide dell’amante. Un passaggio chiaramente avvertito da entrambi e che su ciascuno produce effetti molto differenti rispetto all’atteggiamento da assumere nei confronti della vita.

“Tornando a casa” è dunque un film contro l’idea di guerra costruito con notevole abilità narrativa. Un film tipicamente figlio del suo tempo ma capace, per l’intima natura del tema che tratta,  di proiettarsi molto oltre il suo contingente storico. Grande cinema di un autore troppo sottovalutato (a mio avviso), cantore dell’altra america

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