Regia di Hal Ashby vedi scheda film
La fine degli anni 70 non è stata solo contrassegnata dal canto del cigno della New Hollywood, proprio in quel periodo si concentra intorno ai nuovi registi di quel movimento l’esigenza della società di capire e di analizzare meglio tutti gli aspetti riguardanti il discutibile conflitto in Vietnam terminato nel 1976, usando anche il mezzo cinematografico e la capacità d’indagine dei cineasti del momento. La descrizione della guerra e delle sue conseguenze si affiancano al bisogno di verità, e alla paura diffusa che tesi ideologicamente contrapposte non possano spiegare razionalmente non solo i motivi di una guerra, ma che in qualche modo non possano da sole affrontare il conflitto interiore dei reduci, dei loro famigliari e della società attonita e passiva che li circonda. Tornando a casa (1978) di Hal Ashby è uno dei capitoli più incisivi di quel percorso soprattutto umano, mentre la chiusura ideale del cerchio sulla natura stessa della guerra si può configurare tra il capolavoro di Coppola, Apocalypse now (1979) per arrivare all’analisi di Kubrick con Full metal Jacket(1987). Il cinema di Ashby, il regista hippie e romantico, non può invece prescindere soprattutto dai suoi personaggi, delegando loro in prima persona quella funzione testimoniale che offusca ogni altra descrizione. Tutti i film da lui diretti ottengono dagli attori prove maiuscole ed intense tali da riuscire a mettere in secondo piano il lavoro di un regista mai troppo considerato dall’establishment perché ancora troppo legato alla propria indipendenza sia dal vecchio cinema ma anche dalle nuove tendenze. La borghese Sally, moglie del capitano Bob partito per il Vietnam, si occupa come volontaria del recupero dei reduci ospedalizzati con gravi disagi psico fisici. Incontra l’ex sergente Luke (John Voight), immobilizzato su di una sedia a rotelle ma animato da un forte dinamismo intellettuale alternativo che farà innamorare la donna. Tornando a casa è stato un progetto fortemente voluto da Jane Fonda, attrice e attivista del movimento pacifista che interpreta Sally, troverà nel controcorrente Ashby lo strumento adatto per portare sul grande schermo non gli aspetti più tragici e le implicazioni socio politiche del conflitto, ma principalmente la voce di chi si è sempre opposto ad esso. Il film dunque vive del confronto tra la visione “progressista” di Luke e Sally e il mondo chiuso e conservatore degli americani che sono stati passivamente a guardare dalla finestra quello che accadeva. Chiaro e facilissimo che emerga la condivisione della tesi dei due protagonisti, compresa una rappresentazione dei personaggi la cui immagine col passare del tempo e da qui nel corso degli anni, assume un valore iconografico, sia visivamente che nei comportamenti e negli slogan ideali. Con un sottofondo musicale del meglio del rock pop dell’epoca, a collimare con le belle presenze di Luke e Sally, si traduce la loro passione in quello che sappiamo essere poi affogato nella realtà degli anni a seguire come una speranza delusa di un mondo aperto e senza guerre. Ashby però non si accontenta solo di questo, ma pone al centro la figura marginale per quasi tutto il film , di Bob, l’artefice del ritorno a casa che dovrà confrontarsi con le spinte che vogliono modificare la società e quello in cui pensava di credere. Magistralmente il regista ottiene dal personaggio interpretato da un ottimo Bruce Dern, una molteplicità di contraddizioni, di dubbi e di asperità sentimentali che condensano in pochissime sequenze tutta la profondità del film, caricandosi di drammaticità, di dubbi laceranti, di un realismo molto percepibile. Ancora una volta l’umanità del regista viene fuori, anteponendo uno sguardo orientato verso gli esclusi dalla felicità a qualsiasi retorica ideologica.
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