Regia di Yorgos Lanthimos vedi scheda film
Un corto di dodici minuti per un Lanthimos dei migliori
Diretto da Yorgos Lanthimos, da una sceneggiatura scritta da Efthimis Filippou e Lanthimos, basata su un'idea di David Kolbusz, il film di dodici minuti vede Matt Dillon interpretare un violoncellista professionista, sposato con tre figli, il cui incontro casuale con una sconosciuta in metro sconvolge la vita.
Ma la sconvolge veramente? O certe rivelazioni del niente che siamo sono destinate ad essere ben presto chiuse in un archivio che evitiamo di riaprire?
Cos’è accaduto?
In metropolitana, dopo le prove del concerto, il violoncellista senza nome chiede l’ora ad una ragazza sconosciuta seduta di fronte (Daphne Patakia).
Lei non risponde, ma dopo qualche istante gli rivolge la stessa domanda.
Poi lo segue fino a casa, ha le chiavi anche lei, entra, copia ogni gesto e parola dell’uomo, s’impossessa del suo posto, o, meglio, lo raddoppia.
L’indomani Dillon è di nuovo in metro col suo violoncello, e stavolta sarà un giovane dirimpettaio nero a chiedergli l’ora. Lui non risponde, ipotizziamo che accadrà la stessa cosa del giorno precedente, cambiando i ruoli.
Dodici minuti bastano a Lanthimos per aprire scenari spaventosi in forme rigide, algide simmetrie circoscritte entro pochissime parole.
"Do you have the time?", “Sa l’ora?, ma anche “Possiede il tempo?” o “Ha tempo?” .
Filosofi, teologi, alchimisti, letterati, fisici e matematici potrebbero non finire mai di accapigliarsi sul concetto, Lanthimos sceglie invece di spiazzare lo spettatore, il “niente”, nimic in rumeno, è la condizione ordinaria di cui non siamo consapevoli, ben aggrappati alle nostre maschere.
Guai perdere questo aggancio, si scatena un terrore metafisico che ci toglie la parola.
Il violoncellista assiste muto a questa espropriazione del sé, moglie e figli sono inerti, addirittura non sembrano neppure sconvolti, la lacerazione della scoperta del non senso è in lui e, probabilmente, l’incontro successivo in metro pareggerà i conti.
C’è sempre qualche maschera pronta ad essere indossata, e accorgerci del niente che siamo può portare alla pazzia, al suicidio, o, il più delle volte, ad un salvifico ritorno alla routine.
Essere niente, il vuoto, significa lasciare campo libero all’identificazione/sostituzione che l’altro compie con l’oggetto del suo interesse (nella fattispecie la ragazza che si appropria di lui fino a diventare lui in tutto).
Chi è vero, reale dei due? Nessuno ed entrambi, torna Pirandello di Uno, nessuno, centomila, torna Mattia Pascal/Adriano Meis, torna Kafka con il suo enorme, penoso e schifoso insetto.
La ripetizione del movimento di sarabanda della "Simple Symphony" di Benjamin Britten comprime pulsioni violente entro le forme composte dell’ensemble di archi in cui la ragazza suona al posto di lui e moglie e figli applaudono. Il gioco degli occhi è ancora una prova di quanta verità ci sia nell’inconscio: cupi, come stretti in un’osservazione sorda del mondo intorno, quelli dell’uomo; di immobile fissità quelli della ragazza; coperti da una mascherina notturna quelli della moglie.
Il rapporto circolare fra sguardi è fallito, il loro linguaggio ha dimenticato le parole, resta la precarietà dei luoghi in cui vivere, come un vagone della metropolitana, e la ripetitività dei rituali come cuocere un uovo per la colazione del mattino.
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