Regia di Valentyn Vasyanovych vedi scheda film
In un futuro abbastanza prossimo, Serhil (Andriy Rymaruk) cerca di trovare un motivo per tirare avanti in un’Ucraina appena uscita da una devastante guerra “fratricida”. È un ex soldato Serhil, vive nella parte orientale del paese, e le cose che ha visto in guerra lo hanno segnato nel profondo. Poi succede che l'acciaieria dove lavora è costretta a chiudere e lui si trova anche con un nuovo lavoro da dover cercare. Le cose cambiano quando conosce Katya (LiudmylaBileka), una volontaria impegnata nel recupero dei cadaveri lasciati abbandonati negli scenari di guerra. Grazie a lei Serhil riacquista un po’ di funzioni vitali, iniziando a vedere la stessa morte da una prospettiva diversa. Continuare a vivere è possibile, anzi si deve.
Rispetto ai tragici fatti che soprattutto il popolo ucraino sta vivendo da un mese a questa parte, sembra anche banale sottolineare come “Atlantis” di Valentyn Vasyanovych sia stato tristemente anticipatore di quello che l'attuale guerra ci consegnerà in un futuro abbastanza prossimo. Se non fosse che da un film girato nel 2018 possiamo ricavare due conclusioni valevoli per contesti e situazioni anche diverse rispetto a quelle a cui sono specificatamente riferite. Conclusioni che, nel mentre esulano dal carattere strettamente cinematografico, stanno lì a dimostrare come il cinema sia capace, attraverso l’uso dei suoi precetti grammaticali, di fornire delle fotografie interpretative sul mondo di impareggiabile efficacia. Primo, si rafforza l’idea che la creatività artistica sia spesso capace di cogliere i segni più o meno visibili che si addensano davanti agli occhi e fornire scenari attendibili a cui sarebbe opportuno dare più credito. Secondo, la tempistica in cui si innesta il film mette in risalto il malvezzo ormai acclarato di occuparsi degli scenari di guerra solo quando si è scaraventati dentro dall'onda emotiva (e mediatica aggiungerei) del momento, senza mai preoccuparsi di attenzionare in tempo debito i tanti detonatori di crisi pronti ad esplodere in diverse parti del mondo.
Il regista ucraino dimostra di stare dentro gli eventi che surriscaldano il suo paese, e quattro anni prima che l'imperialismo Putiniano emergesse in tutta la sua venatura criminale, si prende la responsabilità di mostrare uno scenario “futuribile” sulla scorta di una guerra fratricida che nella regione del Donbass era iniziata nel 2014. Per ribadire quanto già scritto, i segni bisogna saperli cogliere ed interpretare e capita spesso che siano gli intellettuali veramente liberi a fare il lavoro migliore per capacità d'analisi e coraggio nel saperla esporre.
In tal senso, si prendano due affermazioni molto emblematiche contenute nella prima parte del film. La prima e quella di un amico di Serhil il quale, nel ricordargli il cattivo rapporto che hanno con i russi all'interno dell'acciaieria, dice “che vogliono che arrivi uno zar a risolvergli tutti i problemi”. La seconda, fa riferimento alle parole di un operaio in seguito all'annuncio della chiusura dell'acciaieria. Rivolgendosi ad un rappresentante sindacale della fabbrica gli ricorda che “in America non le chiudono le loro centrali. Lo sai, qualunque cosa dicono stanno solo eliminando la concorrenza”. Nel primo caso, le parole sembrano riecheggiare l'aspirazione insinuata nel popolo russo dalla sapiente opera della propaganda di regime di un ritorno alla grande Russia. Nel secondo, si fa esplicito riferimento alla “longa manus” del grande potere economico che in tutte le situazioni di crisi geopolitiche si mette ad elaborare sornione vantaggiose condizioni di profitto.
Ma “Atlantis” è soprattutto la delineazione dolente di un mondo che sembra votato ad un irreversibile declino, un universo distopico privato della speranza di poter restituire ai suoi abitanti una vita veramente dignitosa. Perché la guerra è una trama inestinguibile e "Atlantis" fonda su questo dato empirico tutto la sua consistenza narrativa. I colori sono tetri, il cielo fa piovere ruggine, l'aria è contaminata dalle fattezze di una catastrofe senza fine. La regia di Valentyn Vasyanovych delinea con scrupolosa cura dei particolari la faccia della desolazione, che è morale e materiale insieme, investendo soprattutto sul linguaggio delle inquadrature fisse, spesso lunghe e poste in campo medio. Succede spesso che non è la macchina da presa a seguire le cose che accadono, ma sono queste a presentarsi davanti all'obiettivo. Come una fotografia del reale che può cambiare il peso visivo attribuito agli oggetti che la compongono ma lasciando immutata la sostanza significativa prodotta dal suo insieme composito.
Al centro della scena c'è naturalmente Serhil, un uomo che cerca di trovare validi motivi per tirare avanti. “Dieci anni di guerra per abbandonare tutto ?”, si domanda di fronte alla prospettiva di lasciare definitivamente il paese. Un dilemma che già suona come un tradimento alle cose atroci di cui è stato diretto testimone, che aumenterebbero il senso del tragico se gli si volterebbe semplicemente le spalle. Perché Serhil è l'emblema di chi inizia una guerra perché crede di non avere più nulla da perdere e che poi impara a proprie spese che la cosa più giusta da fare è “continuare a vivere”. A questa presa di coscienza ci arriva grazie alla vicinanza di Katya, il cui lavoro è quello di far sì che la guerra si concluda anche per i morti. La lunghezza dei piani fissi sulle autopsie dei corpi ritrovati, nel loro essere insistite e volutamente particolareggiate, sembrano appunto volergli restituire la dignità perduta. Il loro incontro funge anche da spartiacque dello sviluppo narrativo del film. Infatti, ad una prima parte carica di rabbia e dolore, abitata dai fantasmi di una guerra che invade l’aria, segue una seconda che, nonostante entri più in intimità con la faccia orrorifica degli scontri in armi, apre chiaramente a prospettive più umanizzanti.
A confermare questo schema narrativo ci sarebbero le soluzioni visive adottate dal regista ucraino all’inizio e alla fine del film. “Atlantis” si apre e si chiude infatti con delle inquadrature che, se da un lato sono profondamente antitetiche per ciò che mostrano (il momento della morte le prime, quello dell'amore ritrovato le seconde), dall'altro lato sono accomunate dall'essere sature di colori vivi (ottenute con la camera termica). Tutto il visibile è come avvolto in un'energia vivida che sembra proclamare l'intenzione di non volersi arrendere di fronte alla presenza incipiente della morte. Un'energia che, nel contempo, ha ancora lutti da denunciare e calore da desiderare.
Buon film di un autore molto interessante.
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