Regia di Sahraa Karimi vedi scheda film
Venezia 76. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Già autrice di due documentari sulla condizione femminile in Afghanistan, la regista Sahraa Karimi approda al lungometraggio di finzione con una storia a capitoli che offre un interessante spaccato sulla città di Kabul, tra modernismo e tradizione. Ogni capitolo è dedicato ad una donna e ad ogni segmento corrisponde un filtro sulla società afghana.
Hava è in cinta del primo figlio e vive in una famiglia tradizionale in cui i compiti delle donne sono precisi e inderogabili: pulire, cucinare, accudire gli anziani suoceri, obbedire. Quando Hava cade al suolo, sotto il peso della stanchezza e del ventre prominente, il marito, intento a fare gli onori di casa alla presenza degli amici, per i quali la poveretta si è sottoposta ad estenuanti ore di lavoro, continua i festeggiamenti anziché accompagnare la moglie in clinica per rassicurarla della salute del bimbo.
Maryam vive in un bel appartamento. È un volto noto della tv dove lavora come giornalista. Dopo vane promesse di fedeltà ha scaricato il marito che la perseguita con telefonate continue che si sommano alle pressioni lavorative del direttore dell'emittente. Maryam rintanatasi nella sua bella casa si sottopone ad un test di gravidanza che le mette davanti una questione complessa da affrontare.
Ayesha è giovane. Mollata da un fidanzato codardo ed incapace di prendersi le proprie responsabilità, decide di accettare la proposta di matrimonio del cugino allo scopo di aiutare la madre, rimasta vedova, ad affrontare la precaria situazione economica della famiglia. Ma prima deve trovare i soldi per ricomporre la propria integrità morale.
Tre donne fanno di necessità virtù in una società profondamente maschilista nella quale solo la possibilità di studiare ed assumere un ruolo di prestigio può dare respiro ad una solitudine radicata. La condizione è d'obbligo ma non sembra sufficiente se è vero che la giornalista Maryam che frequenta la buona società e gode di autonomia economica viene rimproverata dell'amica per aver messo il marito alla porta e per aver espresso il desiderio di abortire il frutto del matrimonio che avrebbe potuto saldare il precario rapporto nella coppia. Più la ricchezza culturale ed economica si affievolisce peggiore è la condizione delle donne. Ayasha si deve accontentare di un cugino, in fondo di buone intenzioni, e, nonostante la mancanza di pressioni materne a contrarre matrimonio, sacrifica il desiderio d'amore per il bene familiare. Ayesha in fondo è fortunata rispetto a molte altre donne afghane. Liberata del fardello di un amore codardo e ricucita la moralità pretesa dal maschio prima delle nozze, avrà probabilmente una vita di rispetto, se non proprio d'amore, in linea con quanto successo alla madre. Ben diversa è la situazione della povera Hava intrappolata in un matrimonio senza alcun sentimento ed umiliata dagli uomini che con lei spartiscono una casa popolare dove il telegiornale mette in rassegna gli infiniti problemi politici del paese che interessano solo quei pochi che non hanno già un campo di battaglia tra le mura di casa.
Dei tre segmenti i più efficaci sono quelli dedicati ad Hava e Ayesha perché rappresentano l'atavica rassegnazione delle donne afghane verso la propria condizione di schiavitù. Il secondo episodio, quesi esclusivamente imbastito dal filo di un telefono, è forse un tantino didascalico anche se risulta evidente l'intenzione della regista di puntare il dito contro una socializzazione fagocitata dall'uso indiscriminato della tecnologia. Verità innegabile quanto è vero che la stessa Hava, di bassa estrazione sociale, non potendo entrare in contatto con gli ospiti dal marito deve affidarsi al cellulare per ogni comunicazione. L'immancabile smartphone di Sahraa Karimi è il nuovo burqa dell'era post-talebana che mantiene la donna a distanza confinandola nel proprio ambiente domestico e nella solitudine che la mancanza di confronto rende infrangibile.
Le vite di tre donne si sfiorano appena fino ad incrociarsi nella squallida sala d'attesa di una clinica. A separarle un burqa, i veli che raccolgono i capelli, i cellulari accesi ed una luce fioca che illumina destini incerti aggrappati all'unica certezza che per sopravvivere a Kabul bisogna cavarsela da sole, non potendo contare sull'appoggio di uomini invisibili, irresponsabili e culturalmente propensi a considerare le donne come un contenitore.
Presentato nella sezione Orizzonti il film di Karimi è stato scelto per rappresentare l'Afghanistan nella corsa agli Oscar come miglior film internazionale.
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