Regia di Oliver Hermanus vedi scheda film
Venezia 76 – Orizzonti.
Tramite i vari passaggi formativi che rende obbligatori, il sistema plasma gli adulti di domani, ma sull’istinto e le pulsioni individuali non c’è iniziativa che tenga. Forzando un individuo a essere ciò che non è, e non sarà mai, non si ottengono risultati, si procura semplicemente dolore. Un dolore inutile.
A insegnare l’odio premeditato e rivolto ostinatamente nei confronti di determinate categorie, non si costruisce nulla. Ogni volta, si estirpano dei rami sani, fino a quando quel che rimane della pianta è secco.
Sudafrica, 1981. Per garantire la supremazia della razza bianca e combattere il nemico giurato, individuato nel comunismo, ogni ragazzo è costretto ad affrontare un biennio di servizio militare.
Nel 1981 è il turno di Nicholas (Kai Luke Brummer), che prova sulla sua pelle la brutalità dell’addestramento, con prove snervanti, insulti ripetuti e il rischio di finire in un manicomio se le risposte alle sollecitazioni subite non sono conformi al volere del sergente istruttore.
Durante questo periodo, Nicholas stringe amicizia con altri commilitoni e percepisce un’inequivocabile attrazione fisica verso uno di loro.
Finita la leva, si metterà sulle sue tracce.
Il regista Oliver Hermanus racconta un pezzo di Storia del Sudafrica, entrando nel vivo del processo di addestramento militare, durante il quale i ragazzi venivano preparati, istruiti e settati come una macchina priva di autonomia decisionale .
Nei primi sessanta minuti, viene passato in rassegna un corollario di violenza, inferta per indottrinare una forma mentis uniformata. Un’implacabile gabbia delle torture per i giovani, destinata a produrre una produzione massiccia di odio. Un modello che incattivisce, solidificando le divisioni ed elargendo ondate di sofferenza.
In questo modo, avviene una scrematura sociale. I più forti e cinici entrano direttamente a far parte della classe dominante, costituita da uomini violenti e insensibili, che non vedono nulla al di là della categoria di appartenenza, prosciugati di una qualsiasi forma di empatia e giudizio individuale. Gli altri, un’esigua minoranza, subiscono, vivendo separazioni traumatiche e assistendo a suicidi e morti inutili, con l’unica ambizione di non soccombere. Una resistenza da forgiare rigorosamente in silenzio, per non incorrere in punizioni abominevoli.
Invece, nella seconda sezione del film - di minor durata -, con l’appurata inclinazione omosessuale del protagonista, riaffiora una speranza, rintracciabile in un germoglio sopravvissuto e intenzionato a crescere. Un uomo nuovamente intestatario del suo destino, protagonista di incontri fortemente voluti che avvengono in una fase embrionale, di conseguenza troppo acerba per andare oltre un ammiccamento.
Se la prima parte è coriacea, ma anche troppo allungata e reiterata, la seconda è giustamente esitante, con una maggiore disponibilità concessa all’interpretazione di chi guarda.
In generale, Moffie incornicia un passato superato ma non del tutto cancellato e anche rimpianto da una fetta della popolazione, con un’istigazione all’odio attivata mediante un modello formativo semplicemente disgustoso. Una discriminazione non fa altro che generarne altre, seguendo fedelmente le indicazioni partorite da una società sempre più cupa, rancorosa, impaurita e anestetizzata.
Anche gli uccelli sono incatenati in cielo (citazione di un’incisione nel legno mostrata nel film).
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