Regia di Théo Court vedi scheda film
Venezia 76. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
La bellezza del cinema è dare la possibilità a storie mai raccontate di riaffiorare dai fondali del passato. La pensa così anche Théo Court, il regista cileno di "Blanco en Blanco" che ha scelto la scrittura cinematografica per raccontare un episodio sconosciuto quanto orribile della storia sud americana. Il cinema, dunque, ha un valore civile secondo Théo Court, concetto più volte ribadito a fine proiezione. C'è un però a tutto ciò. Una mancata contestualizzazione di quanto raccontato. Riportando i brusii del pubblico c'è da chiedersi se un film possa definirsi riuscito se c'è bisogno che l'autore spieghi alla platea quanto ha fatto e ciò di cui ha parlato. Mi sento di dire che i mormorii sono fondati e la richiesta espressa dal pubblico di fare chiarezza è stata più che mai legittima. Io stesso mi sono chiesto dove fossero i luoghi impervi ammantati di neve e gelo popolati da gente di lingua inglese e spagnola. Mi sono chiesto quale tribù del nord, dell'Alaska, piuttosto che del Canada, fosse vittima della brutalità di queste persone e che ruolo avessero gli spagnoli in tutto ciò. Poi per bocca del regista e del protagonista Adrian Castro l'intera sala ha scoperto che le immagini viste ritraevano una vicenda che ebbe luogo nella Terra dei Fuochi. Una pagina di storia molto lunga poiché il genocidio dei nativi durò 15 anni a cavallo del XIX e XX secolo allorché gli stati argentino e cileno vendettero la concessione di sfruttamento del suolo ad alcune famiglie di origine britannica, croata e spagnola.
Gli indios erano di troppo e addirittura due di questi clan pagavano ogni paio di orecchie che comprovassero l'uccisione dei nativi. In questo il film è piuttosto chiaro pur seguendo il punto di vista di Pedro, un fotografo chiamato a ritrarre la sposa della ricca famiglia Porter, coinvolto, alla fine, nella caccia agli indiani di cui fotografa l'eccidio, pur di trovare i soldi e quindi il modo di lasciare quella terra di nessuno sferzata dal vento e dal gelo. Un vero peccato che il regista abbia tralasciato il contesto lasciando lo spettatore in balia di immagini e dialoghi insufficienti ad inquadrare i fatti. Sarebbe bastata una didascalia all'inizio e poche altre a righe alla fine per fissare questo genocidio in un punto preciso della storia e della mappa. Queste spiegazioni non avrebbero inficiato il risultato finale e tanto meno intaccato lo stile dell'autore che alla fotografia rende omaggio con piani lunghi ed inquadrature eleganti riproducendo efficacemente una luce naturale spenta e sabbiosa.
Efficace l'interpretazione del gigante cileno Alfredo Castro, un uomo che ama la fotografia ed il processo lentissimo che porta alla creazione artistica. La riproduzione del gesto fotografico regala sequenze di rara bellezza. La sposa bambina è funerea in abito nuziale appoggiata ad un mobiletto che non può darle forza di reagire ad un rito programmato. Nel letto ornato di pelliccia emana una sensualità puerile quanto intoccabile. Estenuante la preparazione scenica di Pedro che deve scattare la posa perfetta con cacciatori impazienti inginocchiati al cospetto dei corpi uccisi mentre il sole sta scomparendo dietro i pendii. È la foto che ha ispirato Court a scrivere questa pagina di storia. Una scrittura piuttosto pesante, lenta quanto gli scatti del kafkiano protagonista che non riesce a conoscere il proprio committente e tanto meno ad andarsene da quel luogo inospitale. L'invisibile Mr Porter è il paradigma di un potere burocratico e disumano che, da lontano, indirizza le coscienze dei propri uomini. Sono però le persone comuni ad agire per conto del potere, per cui se quest'ultimo è responsabile delle atrocità della storia, è pur sempre vero che ognuno che ne sia stato complice è parimenti responsabile. Al netto dei difetti questa resta senz'altro il messaggio più limpido e sferzante di questo lavoro che meriterebbe qualche piccolo accorgimento.
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