Regia di Simone Isola, Fausto Trombetta vedi scheda film
“Quanto ha amato il cinema Claudio…guarda, Martino, forse nemmeno tu!”
Questa è la frase che conclude la lettera che Valerio Mastrandrea invia a Martin Scorsese (“Martino” è come lo chiamava Claudio Caligari). Una vera richiesta d’aiuto al famoso regista statunitense (che non ha mai nascosto il suo amore per il cinema italiano) per permettere a Claudio Caligari di poter fare il suo nuovo film.
La storia di Caligari è quella di un regista dannato, in 32 anni ha fatto solamente 3 film, l’ultimo dei quali girato mentre era molto malato e sotto chemioterapie. Ma quella che viene raccontata in questo bel documentario non è una storia patetica, tutt’altro, una storia d’amore e passione per il cinema. Claudio Caligari riuscirà a concludere il suo film “Non essere cattivo”, ma morirà pochi mesi dalla sua presentazione alla 72° Mostra di Venezia. Questo la dice lunga sul destino di un regista che ha girato più film nella sua testa che sulla pellicola. Le varie testimonianze raccolte nel documentario, ci mostrano l’uomo Caligari, che non diverge moltissimo dal regista: timidissimo, di poche parole, ma di un'etica e una rigorosità eccezionali. Non amava sprecarsi in troppi discorsi, piuttosto cercava di arrivare subito al dunque e ottenere il risultato che si era prefisso senza compromessi. Persona colta, si teneva aggiornato su tutti i fatti di cronaca e politica, attento alle problematiche sociali, si impegna da subito con il suo lavoro a documentare le lotte studentesche dei primi anni ’70 con piccoli cortometraggi. La voglia di immergersi nelle realtà scomode lo affascina da subito, portandolo così alla stesura del suo primo film “Amore tossico”, una storia di droga ambientata nella periferia di Ostia, utilizzando attori di strada (come si utilizzava nel gergo neorealista), che avevano veri problemi di tossicodipendenza. Il film è duro, crudele, ma come dice lo stesso Caligari: onesto. Il regista cerca di fare un’operazione “DeSetiana” (passatemi il termine), riprendendo quel cinema realista che tanto ammirava, per calarsi completamente nell’ambiente, con i personaggi e tirarne fuori una storia che non fosse tanto realistica quanto onesta e sincera. Apprezzato per questa scelta così originale e soprattutto coraggiosa, il regista Marco Ferreri decide di prendere sotto la sua ala protettiva quello che lui considera una nuova promessa per il cinema italiano. Purtroppo le critiche che inondano il film sono tali che non trova facile distribuzione, nemmeno nei cinema di quella periferia che Caligari vuole raccontare. Ancora una volta la società vuole mettere la polvere sotto il tappeto, “lavare i panni sporchi in famiglia” ed evitare di mostrare quello che stava diventando una delle piaghe più terribili del decennio: la droga.
Il documentario ripropone le interviste dell’epoca, tra cui una famosa trasmissione televisiva di inizio anni ’80, in cui veniva messo sotto processo un film in uscita, dove un critico cinematografico ricopriva il ruolo dell’accusa e un altro quello della difesa. In questo caso a difendere con le unghie e i denti il film c’è Marco Ferreri. Purtroppo pare che da quel banco degli imputati, Claudio Caligari non sia mai sceso. Il film, se apprezzato da molti registi blasonati, è rimasto marchiato come “maledetto”, come se la droga che in quella pellicola voleva raccontare avesse infettato in qualche maniera la carriera del regista. Passeranno 15 anni perché Caligari possa fare il suo secondo film, ma non sono anni di inattività. L’anziana madre racconta di quante sceneggiature avesse scritto dopo il suo primo film, e di quante altrettante porte chiuse in faccia avesse ricevuto. Nonostante tutto non si è mai scoraggiato, mai lamentato (lo stesso atteggiamento che ha mantenuto con la malattia fino alla fine), pronto sempre a ricominciare senza però mai scendere a compromessi. Questo carattere così puro e incontaminato dai meccanismi del sistema, ha affascinato tutti quelli che ha incrociato nella sua vita lavorativa e affettiva. Non scendere a compromessi mai, ma riuscire a fare il proprio lavoro esattamente come lo aveva pensato, era una condizione alla quale Caligari non poteva (e non ha) mai rinunciato. Non lo scoraggiava essere rifiutato dai produttori, ma mollava la presa se capiva che il film non sarebbe potuto essere così come lo aveva scritto.
Anche la scelta del casting non si distanziava da questa prerogativa. I volti degli attori dovevano essere come li aveva pensati per i suoi personaggi fin dalla scrittura iniziale.
Gli attori si modellano secondo i loro ruoli, o addirittura vengono scelti perché il confine tra attore e personaggio viene del tutto cancellato, quando (come in “Amore tossico”) le due cose coincidono. Questo ultimo aspetto è spiegato molto bene proprio dal documentario in questione, che utilizza il materiale di lavoro sul set dei film per mostrare il metodo di lavoro di Caligari. Il regista, sia da giovane al suo primo film, sia da malato terminale con il suo ultimo film, è una presenza discreta, che non si prodiga con parole o gesti per spiegare quello che vuole, ma si limita a osservare per poi dare poche indicazioni di scena. Il film che gira è praticamente diretto nella sceneggiatura, sul set c’è solo il lavoro logistico e di preparazione. Importante è però l’elemento dell’improvvisazione che da all’attore quella libertà di espressione indispensabile per i film di questo genere.
Molte le testimonianze di amici e colleghi che raccontano la loro esperienza accanto al regista. Quello che mi ha più commosso è come l’emozione attraversasse gli occhi e la voce della madre (ovviamente), ma anche quelli di semplici comparse, o dei vecchi attori sopravvissuti del primo film, fino ad arrivare a quelli di Luca Marinelli e Alessandro Borghi, i 2 protagonisti di “Non essere cattivo”, che hanno vissuto sulla propria pelle l’importanza di concludere un lavoro trentennale ma anche un percorso di vita. Ma il più coinvolto emotivamente appare senza dubbio Valerio Mastrandrea, che da quando girò “L’odore della notte” nel 1998, instaurò con Caligari un personale rapporto di amicizia. Amicizia nata forse perché il regista vide in lui quelle doti di volto “proletario” che altri non avevano mai notato, forse perché Mastrandrea intuì che aveva davanti un potenziale maestro di una nuova corrente cinematografica a cui il sistema ha impedito sistematicamente di nascere, forse perché semplicemente si assomigliavano e non avevano bisogno di tante parole per capirsi ma bastava una battuta, proprio come nei film. Da brividi la scena in cui viene girata l’ultima sequenza di “Non essere cattivo”: in un cimitero, quando Cesare porta l’orsacchiotto con la scritta del titolo del film sulla tomba della nipotina. Da lì a poco anche il regista avrebbe concluso la sua vita, con solo 3 film al suo attivo, ma con chissà quanti altri nel cassetto.
Doveroso mostrare nel finale del documentario, la standing ovation che “Non essere cattivo” ricevette alla 72° Mostra di Venezia. Un regista al quale è stato dato sicuramente più spazio da morto che da vivo, come succede da sempre per i grandi artisti incompresi.
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