Regia di Simone Isola, Fausto Trombetta vedi scheda film
Storia di un uomo mite e intransigente, di poche parole, discreto e spesso illuso da promesse non mantenute, più spesso deluso da porte chiuse per il suo cinema scomodo e per il rifiuto di essere altro da quello che era.
Prodotto da Kimera film e Rai Cinema e presentato a Venezia76 Classici il film è dedicato a Claudio Caligari, regista scomparso nel 2015, subito dopo aver finito di girare Non essere cattivo.
Era il suo terzo film, ma poteva essere il trentesimo, o forse più, se le decine di sceneggiature che scriveva e i progetti che pensava avessero trovato accoglienza in un mondo duro, difficile e anche molto spietato come quello del cinema.
Eppure il cinema era la sua vita, e non tanto per dire, dal giorno in cui il padre lo portò a vedere Ben Hur, lui piccolino ancora in calzoni corti, l’amore fu infinito e il destino segnato.
Non esisteva altro che volesse fare, e soprattutto voleva farlo senza compromessi, senza patteggiamenti, fedele ad una visione di cinema e di vita che i suoi tre film hanno trasmesso con la passione di chi sa che tra regista, attori e pubblico s’innesta una triangolazione unica, che dev’essere onesta, costi quel che costi.
Questo biopic è un atto d’amicizia, di amore e riconoscenza, quella di tanti che hanno lavorato con lui e capito, uomini e donne di cinema o presi dalla strada perché avevano la faccia giusta per quella parte.
Tra interventi di amici e collaboratori, foto ingiallite d’infanzia e vecchi filmati da sessantottino col parka, e poi qualche breve filmato in cui parla di cinema in qualche rara occasione pubblica, si snoda la storia di un uomo mite e intransigente, di poche parole, discreto e spesso illuso da promesse non mantenute, più spesso deluso da porte chiuse per il suo cinema scomodo e per il rifiuto di essere altro da quello che era.
Nel 1983, per Amore Tossico, Venezia lo accolse con grandi onori, “da questo momento puoi fare quello che vuoi” era la frase più detta. Appunto, altri due film, a distanza di decenni fra loro e nient’altro che gli avessero lasciato fare.
L’enfasi ipocrita, quel “volemose bbene” seguito da sorrisi e pacche sulle spalle di tanti “cinematografari” è stata punita con il trionfo dell’ultima pellicola, un cult che nel 2015 girò da malato, fino al montaggio, dopo di che morì.
Ce lo racconta la madre, presente quel giorno della prima in Sala Grande, quando gli applausi tentarono, non riuscendoci, di coprire una vergogna durata 32 anni.
” Voleva fare cinema e quando tornava a trovarci, magari dopo una delusione, appoggiava la sua 24 ore piena di fogli sul tavolo come se tutto andasse comunque bene” racconta l’anziana signora.
Molto del film è costruito con sequenze tratte dal backstage di Non essere cattivo, scene che aiutano a conoscere non solo il regista ma l’uomo, avvolto in una sciarpa ed evidentemente sofferente, deciso ad arrivare fino in fondo e sempre attento al proprio lavoro come avesse tanta salute in più e tanto tempo davanti.
E fino in fondo è arrivato, lasciandoci di sé qualcosa di molto vero, che commuove fino alle lacrime.
Un uomo di idealità profonda, di cultura solida, che amava Pasolini più di sé stesso, che alla libertà espressiva unita ad un raffinato senso estetico affidava la sua urgenza di rappresentare un mondo duro, difficile, laterale, come era lui, fuori dai salotti e dalle terrazze degli incontri che contano.
“Muoio come uno stronzo e ho fatto solo tre film” diceva al suo amico Valerio Mastandrea, con quello spirito caustico che lo teneva lontano da polemiche, attento sempre ad essere coerente con sé stesso. Ci lascia con quell’umore, strappandoci quel sorriso che può esserci, anche di fronte alle cose più brutte: “Se c’è un aldilà sono fottuto”.
www.paoladigiuseppe.it
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