Regia di Haifaa Al-Mansour vedi scheda film
Venezia 76. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
La regista araba Haifaa Al-Mansour si mise in luce durante la Mostra del 2012 con un piccolo gioiello dal titolo "La bicicletta verde" che raccontava il sogno di una bambina di nome Wadjda: andare in bicicletta. Un passatempo oltraggioso secondo la morale saudita che non guardava con benevolenza una donna a cavalcioni della canna di una bici. Lo vidi al cinema e ne fui colpito per il modo di descrivere le problematiche femminili con pudore ma con convinzione. Ho colto con gioia, perciò, la presenza a Venezia di Al-Mansour con "The perfect candidate" che sanciva il ritorno in patria della regista dopo una breve ed infruttuosa parentesi americana.
Il film narra di una giovane dottoressa, Maryam, che dopo aver protestato invano per il dissesto della strada che congiunge l'ospedale con l'arteria principale, decide di candidarsi per le elezioni municipali, le prime in cui le donne sono ammesse al voto e alla candidatura. Cresciuta in una famiglia progressista, Maryam, forse la più tradizionalista, coinvolge nell'impresa le sorelle minori Selma e Sara, mentre il loro padre vedovo è in viaggio per una turné di musica tradizionale, la prima consentita dalle autorità dopo molti anni. La regista ha scelto l'evento storico del primo suffragio universale, datato 2015, per dare forma ad una storia che sapesse raccontare l'universo femminile in un paese estremamente chiuso come l'Arabia. Lodevole si presenta il tentativo di Al-Mansour di educare il pubblico ad una maggiore sensibilità verso i diritti della donna che ha sofferto, e soffre ancora, infinite restrizioni alle libertà individuali. Il diritto al voto ottenuto dalle cittadine saudite è stato, gioco forza, un evento centrale per le donne del paese e la regista non poteva esimersi dal raccontarlo.
L'aspetto più pregevole del film, tuttavia, è la rappresentazione della difficile quotidianità delle donne arabe a cui l'evento di portata storica fa da sfondo. Maryam, senza marito, senza fratelli maschi e con il padre lontano è un cane in catena con un raggio d'azione ridotto all'osso. Non riesce ad ottenere un visto per volare in Dubai per una conferenza medica e deve elemosinare la prebenda presso un cugino che lavora per la municipalità per poter salire sull'aereo. Sul lavoro deve lottare per prestare le cure ad un vecchio che preferisce morire piuttosto che farsi toccare da una donna. Come candidata sindaco, infine, può fare campagna elettorale esclusivamente al cospetto di altre donne dovendo adottare sotterfugi come la videoconferenza ed un lenzuolo divisore per poter presentare la propria campagna ad un manipolo disinteressato e chiassoso di maschi con i quali non è lecito avere contatti. In tutto questo l'impossibilità di guidare e l'obbligo di portare il niqab sul lavoro, con l'effetto di rendere distante il ruolo di dottoressa, si manifestano come quisquilie in una società dove la donna è madre, moglie, sorella e può lavorare solo per offrire servizi ad altre donne. Selma ad esempio è fotografa perché nessun uomo potrebbe immortalare le donne ad una festa. La festa del matrimonio a cui lavora Selma è un perfetto modello di rappresentazione sociale con le donne libere di esprimersi fintanto che festeggiano separatamente per poi indossare il pastrano nero quando si congiungono con gli uomini per le celebrazioni rituali.
Il ritratto sociale è interessante in quanto permette allo spettatore di conoscere un modus vivendi molto lontano dal nostro senza dover ricorrere alla forma, meno appetibile, del documentario. La finzione, se da un lato, consente di avvicinare un pubblico più ampio, dall'altro sottostà a regole e compromessi che in parte mortificano la descrizione del contesto sociale. Donne troppo belle, padre assente e altre semplificazioni (l'imbattersi in maniera fortuita nel modulo per produrre la candidatura) corrispondono ad escamotage di scrittura abbastanza datati e palesemente in contrasto con una visione più realistica della vicenda. Al-Mansour, come molti altri registi arabi con esperienza americana nel bagaglio, avrà cercato il giusto compromesso tra spettacolarizzazione, aflatto emotivo e racconto educativo/formativo. Il risultato non è sempre all'altezza. In particolar modo nel finale la regista ha pizzicato troppo le corde dell'emotività suggerendo un ottimismo ed una speranza che francamente non vedo nel futuro prossimo del paese. Nonostante le timide riforme promosse negli ultimi tempi dal controverso principe ereditario Mohammed Bin Salman le donne arabe restano in condizione di inferiorità rispetto alla controparte maschile. Le attiviste rimangono in carcere conducendo una vita al limite del tollerabile mentre altre sono sparite e alcune sono morte durante la reclusione. Al netto dei difetti che può presentare questo film, la figura di Haifaa Al-Mansour è un punto di riferimento per la lotta ai diritti civili e per tutte le aspiranti registe del paese tra cui Shahad Ameen che ha concorso nella Settimana della critica con "Scales" superando la maestra nella resa qualitativa.
Il film traballa nella sua ossatura ma ottiene a mio modesto parere la sufficienza meritando l'attenzione mediatica di una futura uscita. I diritti sono già stati acquisiti per il mercato italiano; si tratta di capire se il film finirà in sala oppure direttamente in streaming.
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