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Dolemite Is My Name

Regia di Craig Brewer vedi scheda film

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La recensione su Dolemite Is My Name

di mck
8 stelle

Keepin' It Real: Eddie Murphy Raw.

 

Quando parlate di Eddie Murphy state parlando di Saturday Night Live, dei 2 “48 Hrs.” di Walter Hill e dei “Trading Places” e “Coming To America” di John Landis (che ha diretto anche il 3° dei “Beverly Hills Cop”), perciò levatevi il cappello, parrucconi. Il periodo contenente queste opere si estende per una dozzina d'anni dai primi '80 ai primi '90. Poi... vi sono altri 25 anni di carriera, un quarto di secolo scevro da altrettanti e soprattutto altrettali guizzi (“Life”, “Bowfinger”, “DreamGirls”, “Tower Heist”), ma questo conta e null'altro, e tutto scompare quando, come fra poco accadrà, il Natale si ripresenterà alla porta, e con esso “Una poltrona per due” alle 20.30 su Italia 1: l'unica àncora di salvezza contro il naufragio di stomaco e cervello prima/durante/dopo il cenone natalizio col parentame di 3° grado.

- How was that?
- I see no reason to do... it again.

- Com'è andata?
- Non c'è alcuna ragione per... farne un'altra.

Craig Brewer, dopo il tutto sommato interessante “Hustle & Flow”, il “coraggioso” (stalloni neri che s'ingroppano esili ninfomani bianche), molto bello e soprattutto molto christinaricciosoBlack Snake Moan”, alcuni episodi & pilot di serie tv (“the Shield”, “Terriers”, “Empire”) e dopo l'aver dato una risposta a una domanda che nessuno fino a quel momento aveva mai posto, ovvero: “Quand'è che qualcuno finalmente si deciderà a fare un remake di Footloose?”, con questo “Dolemite Is My Name” eccolo che aiuta Eddie Murphy a mettere in scena il ruolo principale della sua terza vita artistica, raccontando la genesi di “Dolemite”, la commedia poliziesca blaxploitation di serie b/c/z prodotta e interpetata (mentre l'American International del post-“Blacula” si dedicava a “CornBread, Earl and Me”) a ritmo di swing, non di rullante (“Man, don't give me that Buddy Hackett shit! Make that shit swing! Put your weight on it!”), dallo stand-up comedian Rudy Ray Moore con la supervisione artistica e la regìa dell'attore D'Urville Martin nel 1975: per 20 anni fortemente voluta dall'attore, che co-produce per e con Netflix, la trasposizione cinematografica della nascita dell'opera prima in campo cinematografico di Rudy Ray Moore è tanto classica e rispettosa dei codici, dei cliché e dei dispositivi retorici quanto onesta e sincera, e in alcuni tratti riuscitissima.

 


- Well, you understand you're not supposed to make a movie for the five square blocks of people you know.
- Well, that's fine with me, 'cause every city in America got them same five blocks, and those folks is gonna love it.

- Beh, comprenderai bene che non puoi fare un film solo per quei quattro gatti del ghetto.
- Beh, a me sta bene, perché ogni città d'America ha il suo ghetto, e i suoi abitanti lo adoreranno.

 


Sceneggiatura: Scott Alexander e Larry Karaszewski. Fotografia: Eric Steelberg (collaboratore fisso di Jason Reitman). Montaggio: Billy Fox. Musiche: Scott Bomar (già al lavoro col regista per “Hustle & Flow” e “Black Snake Moan”).

Canzoni: Louis Armstrong, Marvin Gaye, Sly & the Family Stone, Kool & the Gang, the Commodores... E Susan Sarandon, da “the Front Page” (“Niente nudi, battute divertenti e kung-fu!?!”).


Al fianco di Eddy Murphy, un gran cast: innanzitutto il D'Urville Martin di Wesley Snipes (“King of New York”, “Mo' Better Blues”, “Jungle Fever”, “UnDisputed”, “Chi-Raq”), poi Tituss Burgess, Da'Vine Joy Randolph, Keegan-Michael Key, Craig Robinson (che reinterpreta anche la titolante omonima canzone originale), Mike Epps, Chris Rock e un'infinità di “uncredited”. Particine puntute per Barry Shabaka Henley, Snoop Dog e Bob Odenkirk.

- All the pretty girls gotta pay half price. Ugly girls get in for free.

- Tutte le belle ragazze pagano la metà. Le cesse entrano gratis.

Dall'Africa Occidentale ai Caraibi [il grindhouse “Dolemite” + “Dolemite Is My Name” andrebbe fruito assieme ad un'altra accoppiata, diversa per rapporto reciproco (remake diretto e aggiornato vs. bio-pic e fiction-documentaria), ma similare per “ripescaggio”: quella composta da “Ganja & Hess” di Bill Gunn del 1973 e “Da Sweet Blood of Jesus”, il suo rifacimento da parte di Spike Lee nel 2014], dalla Bible Belt al Griot, da James Brown e Muhammad Alì, da James Baldwin ai Last Poet, da Richard Pryor ad Eddie Murphy, dal Rap a Donald Glover, Rudy Ray Moore fa pienamente parte del continuum afro-americano della Black Rhetorical Tradition (orale, scritta, parlata, cantata, suonata...) e infatti per organizzare il suo Repertorio (situato fra l'horror-vacui del peggior Zelig di Canile 5 e l'horror-pleni del migl... del Bagaglino/Colorado) estrapola i racconti orali dall'Archivio che, epigono di Alan Lomax (ma anche della sua "controparte", Harry Smith), ha personalmente creato registrando con un mangianastri le rime proverbiali dei vecchi hobo del quartiere.

Keepin' It Real: Eddie Murphy Raw.

* * * ¾     

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