Regia di Noah Baumbach vedi scheda film
Lettere da due sconosciuti, ovvero: buoni amici come noi (ché qualcosa rimane fra le pagine chiare e le pagine scure, e cancello il tuo nome dalla mia facciata, e confondo i miei alibi e le tue ragioni, i miei alibi e le tue ragioni).
L'auto-ritratto moral-contestualizzante di questo magnifico film - ad oggi il migliore nella carriera dell'autore - profondamente e scopertamente borghese, e quindi più che parzialmente universale (in cui sceneggiatura e recitazione, coadiuvate dall’apparato registico, mettono in scena preziosi, piccoli, puntuali momenti di precisione chirurgica nella delineazione dei caratteri e delle dinamiche psicologiche di abbacinante iperrealismo), compare al suo centro, ed è pronunciato da un Giudice: “Avvocati? Come potete vedere la mia aula è piena e ci sono persone qui che non hanno le risorse dei vostri clienti, e sono abbastanza certo che non abbiate esaurito, in buona fede, le argomentazioni sul caso di questo bambino; intanto manterremo lo status quo...”.
Ingmar Bergman, Woody Allen, John Cassavetes e Mike Nichols (piuttosto che, invece, quello di Robert Benton) sono alcuni dei nomi che vanno a costituire l'humus artistico in cui affondano gli apici radicali di Noah Baumbauch [1969; "the Squid and the Whale", "Margot at the Wedding", "Greenberg", "Frances Ha" (citato/indossato direttamente per interposto artista: "Modern Love", da "Let's Dance", di David Bowie), "While We're Young", "Mistress America"], un autore posizionabile a mezza via tra due suoi epigoni più giovani, come lui sempre o quasi scrittori dei propri film (alle prime notizie che si ebbero sulla nascita del progetto per un po' ho pensato e auspicato si trattasse di un adattamento dello splendido “the Story of a Marriage” del 2008 di Andrew Sean Greer: sarà, se lo sarà, per un'altra volta), ovvero Jason Reitman (1977; "Thank you for Smoking", "Juno", "Up in the Air", "Young Adult", "Men, Women & Children", "Tully") col suo mainstream integrato e Alex Ross Perry (1984; "Listen Up Philip", "Queen of Earth", "Golden Exits", "Her Smell") col suo indie trasversale, facendolo ricadere al vertice di quest'ipotetica triangolazione. E, a fare da trait d'union fra Baumbach e la generazione precedente, Alexander Payne (1961; "About Schmidt", "SideWays", "the Descendants", "Nebraska").
Cast impressionante, strepitoso, spettacolare, maestoso, commovente: la coppia composta da Scarlett Johansson (“Ghost World”, “Lost in Translation”, “Match Point”, “Scoop”, “the Black Dahlia”, “the Prestige”, “Vicky Cristina Barcelona”, “Under the Skin”, “Her”) e Adam Driver (già più volte con Baumbach, e: “Paterson”, “Silence”, “BlacKkKlansman”, “the Man Who Killed Don Quixote”, “the Dead Don’t Die”) che conosciamo mentre danza il proprio duetto ballando gli ultimi passi allorché l’orchestra sta abbandonando la scena, un valzer amoreggiante, che diventa, tra...
...l'azione registica (minuziosa, geometrica, "calligrafica", ma minata da un'improvvisazione... pensata) e la preparazione sceneggiativa (uno script teatralmente provato e riprovato e messo e rimesso in scena prima dei ciak, che pennella e dirige gli attori nei minimi...
...particolari: espressioni, interiezioni, pause, lacrime, etc...), un tango di disamore, e parenti amati [il loro figlio, Azhy Robertson, e la madre (Julie Hagerthy: qui forse nel ruolo della vita, dopo quelli a bordo degli aeroplani di Zucker/Abrahams, senza scordarsi lo “StoryTelling” di Solondz) e la sorella (Merrit Wever, adorabile, già con Baumbach in “GreenBerg”, e: “Studio 60 on the Sunset Streep”, “Nurse Jackie”, “BirdMan”, “MeadowLand”, “Charlie Says”, “GodLess”, “UnBelievable”) di lei], con l’assenza, più acuta presenza, di quelli ripudiati, colleghi (il grande Wallace Shawn: “Vanya on 42nd Street”, “Melinda and Melinda”, “A Master Builder”) e avvocati [Laura Dern (“Blue Velvet”, “Wild at Heart”, “the Master”, “Certain Women”, “Twin Peaks 3 - the Return”), un crepuscolare & morale Alan Alda (“Crimes and Misdemeanors”, “Manhattan Murder Mystery”) e un Ray Liotta che pare uscito da un “Better Call Saul” diretto da S. Craig Zahler] non richiesti, ma “autoinvitatisi” al banchetto (la porta era socchiusa, semi-aperta, in alternativa le chiavi comodamente riposte sotto lo stuoino d’ingresso, e un bel cartello con un invito a entrare sull’uscio). Per (non) tacer poi della valutatrice barra assistente sociale di Martha Kelly, la cui scena è quasi pienamente sul filo dell'horror (polanskiano), e non certo per il sangue...
Meravigliosa fotografia (35mm, 1.66:1) calda e limpida, solarmente chiaroscurale e prepotentemente naturalistica di Robbie Ryan (la filmografia semi-completa di Andrea Arnold, gli ultimi Ken Loach e Sally Potter e “the Favourite” di Lanthimos, con Baumbach da “the Meyerowitz Stories”) che chiude spesso a nero col montaggio di Jennifer Lame, abituale recente collaboratrice del regista (e di Ari Aster - "Hereditary" e "MidSommar" -, più gli unicum per “Manchester By the Sea” di Lonergan e il prossimo Nolan di “Tenet”), composto da sincopi equilibrate di campi-controcampi kubrickianamente asincronici rispetto all’abituale aspettarsi di una correlazione fra il campo parlato e il fuoricampo audente. Musiche originali del grande Randy Newman (anche lui già con Baumbach per il precedente “the Meyerowitz Stories”) che scorrono sotterranee armonizzando un intelligente controcanto eufonico e ininvasivo e alle quali si affiancano due canzoni tratte dal musical “Company” di Stephen Sondheim: “You Could Drive A Person Crazy”, reinterpretata da Johansson/Wever/Hagerthy, e la struggente epitome del film, “Being Alive”, nell’assolo - sembra lasciare a metà, poi si ferma, ci ripensa e ritorna - di Adam Driver che s'affianca ad altre due scene cardine: Johansson che racconta a Dern la storia del suo matrimonio, e l'incredibile, insostenibile e disturbante crescendo a due del confronto in escalation fra Driver e Johansson, retorico e stereotipico quanto si vuole conglomerato di cliché, ma quindi e perciò di realtà e verità. Prodotto da HeyDay e distribuito da NetFlix.
Film possentemente leggero e lacerante nel quale il coraggioso auto-palesemento biografico (Nicole è la crasi fra Jennifer Jason-Leigh, che si fonde con le piante della serie tv - aka: “Annihilation” - che sta interpretando, passata dall’off-BroadWay al pre-HollyWood, e per la quale finirà col dirigere anche qualche episodio, e Greta Gerwig, che il passo completo l’ha compiuto con “Lady Bird”) certificante-assolutorio pienamente borghese punteggiato di recettori emotivi cosmopoliti e interclassisti innesca immedesimazione liberatoria e dolorosa, ma niente affatto consolante: la consolazione, in campo sentimentale, è cosa dell’altro mondo, ovvero di questo, di là dallo schermo…
L'unica parte apparentemente incongruente (tra le dinamiche sociali della Legge e quelle artistiche del Cinema) è il piccolo monologo di Dern sulla Vergine Maria: se Nicole deve essere sincera perché degli investigatori faranno domande in giro, allora per quale motivo chiederle di mentire così tanto e scopertamente?
Explicit palesemente e semplicemente à la Jonathan Demme: e quale film, se non “Rachel Getting Married”, può essere considerato tanto l’antefatto speculare quanto il contraltare simbiotico di "Marriage Story"?
E intanto il piccolo Henry sfoglia un numero di California Lawyer nello studio del futuro silurato Bert Spitz...
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