Regia di Noah Baumbach vedi scheda film
Venezia 76. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
La strada che unisce l'Hotel Excelsior al Palazzo del Cinema sembrava la galleria di un teatro. Ad ogni lato i poster dei film concentravano su di sé l'attenzione, limitando gli spazi alla vista. Alcuni, per la verità, meritavano tutta la considerazione possibile e forse hanno contribuito a dirottare le scelte degli spettatori durante il festival. Il successo dei film passa anche attraverso una locandina fascinosa; i distributori ne sono coscienti. Ad ogni andirivieni mi lasciavo rapire da forme e colori diversi, in particolar modo, da quelli insoliti di "Marriage Story", produzione Netflix girata dall'indie per eccellenza Noah Baumbach. Prima di vedere il suo ultimo lavoro il mio indugio si inseriva nel tentativo pleonastico di carpire i segreti di un film che fino ad un mese prima non aveva nemmeno un titolo. A visione ultimata il mio sguardo si fermava sui manifesti non senza ammirazione e incredulità. Nella carta patinata si potevano leggere gli indizi concreti della storia raccontata. I profili ben intuibili di Adam Driver da una parte e di Scarlett Johansson dall'altra incorniciavano due città da cartolina. La sagoma di lui conteneva New York mentre quella di lei inglobava "Los Angeles". Ad ogni passaggio mio figlio diceva divertito: "Guarda papà. La signora ha le palme dentro la testa". Pur ignorando beatamente chi fosse la signora, vista la splendida età di cinque anni, il piccoletto eveva fatto centro. I pensieri di Nicole tradivano il desiderio di tornare nella natia Los Angeles per riprendere in mano la carriera di attrice televisiva, lasciata per favorire le doti registiche del marito, mentre il cervello razionale di Charlie rigurgitava nostalgia di New York, ambizioni off-Broadway e brama di teatro, senza soluzione di continuità. I pensieri di Nicole e Charlie erano sfasati e orientati ai punti estremi di una diagonale che attraversava gli Stati Uniti. Due città agli antipodi per clima, cultura e stile di vita erano il simbolo di due caratteri diversi, tuttavia spinti alla convergenza da un'attrazione inspiegabile e insopportabile...
È proprio bello "Marriage Story" e, poiché beneficerà di un breve periodo in sala, invito chi ne fosse incuriosito ad andarlo a vedere. Di buoni motivi ce ne sono molti a cominciare dall'incipit che, introducendo i protagonisti della storia, raccontava in pochi e brillanti minuti, con montaggio vivace e serrato, i vezzi di un matrimonio ed i risvolti, sovente ironici, del carattere dei protagonisti. Quegli stessi tratti distintivi finivano per tramutarsi in motivo di rancore e odio balsamico tra Charlie e Nicole il cui matrimonio si stava sgretolando senza che ne avessero la piena consapevolezza. La storia di una decade richiedeva il tempo di accomodarsi in poltrona. La "storia breve del divorzio" richiedeva il resto del tempo e tutte le energie psicofisiche di Charlie e Nicole nello spartirsi soldi, parenti, affetti e le attenzioni del figlio. Questa "guerra delle rose" iniziava con un divertente e romantico spaccato di vita coniugale che si tramutava ben presto in una spietata lotta di spartizione e in una sovrapposizione tra cinema e teatro, tra caldo e freddo, tra pancia e testa.
Pur evitando i toni sarcastici e grotteschi del film di De Vito "Marriage Story" è un'amara ed ironica denuncia del business delle separazioni. Un'industria composta di malcapitati coniugi, senza più amore e speranza, e di avvocati/avvoltoi pronti a spolpare le proprie carogne di ogni centesimo. La commedia di Baumbach vive della brillantezza dei dialoghi e della triste solitudine dei contendenti che potrebbero approdare ad una separazione confortevole ma vengono risucchiati in un vortice di speculazione di cui i rappresentanti legali sono gli artefici. Questi assumono un ruolo tutt'altro che di contorno, inserendosi nella polemica dell'autore, mostrando i vizi di un sistema legale che finisce per lasciare in mutande i separandi. Magistrale in tal senso la lotta tra gli avvocati interpretati da Laura Dern e Ray Liotta davanti al giudice mentre il "vecchio" Alan Alda che ha già qualche matrimonio alle spalle e vorrebbe condurre una trattativa meno muscolosa per il suo cliente finisce per essere silurato. Laura Dern, alla grande con una prestazione da Oscar, inneggiando alle donne, che la società giudaico-cristina vuole perfette, in virtù dell'accostamento con la virginale figura marianica, si rende protagonista di un'arringa esilarante e corrosiva che da sola potrebbe valere la statuetta mentre smaschera il bigottismo tipicamente occidentale, raccolto dal cristianesimo, della donna tutta dedita alla famiglia, alla cura del marito e al perdono delle marachelle coniugali. Baumbach scrive dei legami amorosi quando l'abitudine ha soppiantato la passione e lo fa con un occhio alla reale quotidianità lasciando alla macchina filmica di addentrarsi in zone di sapiente ironia e non trascurando, qua e là, qualche tocco drammatico o grottesco per esaltare il proprio punto di vista. La scena del ferimento autoinfltto da Charlie, in tal senso, è l'emblema di una situazione paradossalmente sfuggita di mano mentre la biliare sfuriata tra Charlie e Nicole lascia il verde amarognolo in bocca in quella che è la scena di maggior impatto drammatico. Della stessa consistenza gustativa la sequenza finale: una scarpa allacciata ed un gesto amorevole e banale avrebbero potuto salvare il salvabile fin dall'inizio e lasciare al palato ben altra sensazione di uno stomaco chiuso. Amaro e disincantato ma percorso da vitale ironia.
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