Regia di Noah Baumbach vedi scheda film
Noah Baumbach può essere riassunto come un Woody Allen paratelevisivo. Nonostante cerchi di giostrare riflessioni non banali sul montaggio e sui primi piani, giocando anche con impercettibili movimenti di camera – quelli in interni, quelli di cui Woody Allen è ancora maestro oggigiorno – Baumbach fa sopravvivere sempre la struttura campo-controcampistica dei suoi drammi familiari, eguagliando la brillantezza alleniana forse solo nella seconda parte di Mistress America, e per il resto emulandola con risultati non altrettanto avvolgenti. Forse nell’interesse di essere più diretto, sarcastico e pungente, ma col risultato invece di non far mai dimenticare la natura essenzialmente scritta dei suoi dialoghi. Ma sorvolando sull’eccessiva precisione della scrittura, che non permette mai di dimenticare appunto il lavoro a tavolino, i film di Noah Baumbach si contraddistinguono per un ritmo di montaggio che sa inserire, a sorpresa e in silenzio, momenti di interessante intensità in contesti apparentemente indifferenti. Giusto con The Meyerowitz Stories e adesso con Marriage Story, Baumbach comincia a riflettere in maniera più matura e anche disincantata sull’espressività del montaggio nelle dinamiche relazionali dei suoi personaggi. Non rinuncia a quel macchiettismo che rende il suo Cinema “leggero” (vedasi i vari comprimari, la brillantissima e comicissima Laura Dern, il disincantato Alan Alda e l’agguerrito Ray Liotta) e divertente, ma decide di evitare di estendere quella macchietta alle conclusioni del film per far sì che ad avere spazio sia l’umanità dei suoi personaggi. Stretti in dialoghi con cinepresa in perenne fluido movimento, con un montaggio contrappuntato che li vincola nei loro litigi e nei loro confronti, i due protagonisti – Adam Driver e Scarlett Johansson bravi anche a cantare – sono i due poli di attrazione di un film che sa non prendere posizione e che addirittura ride delle eventuali parzialità, buttandole in barzelletta. Non sappiamo mai se parteggiare per la coppia o per la loro separazione, ma sappiamo che le divergenze sono prettamente umane, vere, non sbilanciate, e dovute sia a eventi ben precisi sia ad evoluzioni più invisibili – ancor più vere. Ad ogni scena i loro caratteri diventano perfetti per stare insieme e subito dopo inconciliabili, in un ping pong emotivo che forse viene mascherato dall’ostentata brillantezza delle situazioni ma non viene comunque dimenticato, arrendendosi anche a delle sincere tenerezze senza aderire invece – per fortuna – alle ovvietà dell’indie americano. Un film divertente, direbbero in giro ‘agrodolce’.
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