Regia di Franco Maresco vedi scheda film
Uno splendido documentario di taglio antropologico, di augusta portata politica, nei termini veristi (quindi siciliani) della migliore denuncia sociale.
L’aspetto più tragico è che qui l’artista non ha bisogno di inventare, per mostrare l’acuzie della patologia civica. Già la realtà gli offre materiale più che sufficiente per spiegare il marciume di se medesima. Si mostrano fatti, ben selezionati, ma senza esagerazione né creazione arbitraria.
Con intelligente umorismo, Maresco si mantiene al limite del buon gusto, come anche del rispetto della malattia e della disabilità, senza mai oltrepassarla (anche se ci mancherebbe poco, a dire il vero).
Con l’umorismo e la semplicità, riesce a fra notare versanti grotteschi della realtà, e gravissimi per la coscienza civile. Aspetti che però affondano in una tradizione plurisecolare, che il regista ha buon gioco nel far vedere come sia assai difficile da estirpare. Lo è per il degrado culturale e umano.
La solidità dell’ignoranza va di pari passi con l’accettazione della disonestà abituale, se non della sua pratica costante, inveterata. Se tanti siciliani, qui ritratti senza essere pagati, non riescono a dire «No alla mafia», e preferiscono stare in silenzio se interrogati in merito, è frutto in gran parte di un retaggio culturale, ovvero educativo. Diseducativo quanto si vuole, ma nei fatti vincente, nei secoli: «I veri palermitani non parlano», può dire il protagonista, un vero uomo ricco di questa Sicilia. Il quale non si perita di riconoscere: «Siamo legali e illegali…chi ci chiama…ho fatto una festa anche per un boss di mafia…io li rispetti tutti, ai mafiosi e ai politici (sic!)».
Il silenzio è mescolato anche all’esplicitazione, senza falsi pudori, del proprio endorsement a favore della mafia e contro i rappresentanti sani dello Stato, eroi come furono Falcone e Borsellino, e tanti altri.
Tanti, della gente comune, si schierano contro la legalità, e in favore della violenza impunita dei mafiosi. Ma questi sono la maggioranza, a ben vedere: tra chi tace in modo inverecondo, pur di non criticare la mafia, e gli altri che apertamente contestano le forze dell’ordine che han fatto il loro dovere (che sono state molte di meno delle forze dell’ordine che il loro dovere non l’hanno fatto, spesso parteggiando per la malavita medesima; la sceneggiatura lo mostra nel caso, ultimo tra mille, dell’solamente del giudice Di Matteo), ecco che si capisce come la militanza contro la mafia sia ancora un fenomeno minoritario, tristemente. Anche se è cresciuto rispetto al nulla, o quasi, di 70 anni fa, per esempio.
La simpaticissima Letizia Battaglia, fotografa e intellettuale in prima linea contro la mafia già ai tempi dell’eroico giornale comunista “L’ora”, uno dei primissimi presidi contro la mafia (che ha visto almeno tre giornalisti martirizzati dalla mafia: Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Spampinato), può ben dire disgustata che, al cospetto dei giganti dell’antimafia, non si può né ballare, né ridere: invece alla feste per la ricorrenza di Capaci si sprecano purtroppo sculettamenti vari, fra le altre edulcorazioni.
Insegnamento quanto mai odierno, quando il governo di centrodestra, del resto senza venir meno alle sue identità culturali, si effonde in attacchi all’antimafia (come ha fatto ministro Musumeci, ex presidente della regione Sicilia di Forza Italia, il 21 luglio ‘23), e sforna leggi a profusione che suonano come musica per le orecchie di tutti i delinquenti, specialmente quelli ricchi. E tra questi i mafiosi di tutte le regioni ci sguazzano, ovviamente. Ben meno la maggioranza degli italiani, quella non disonesta, cui questa linea politica coerente suona invece come una coltellata.
La cultura mafiosa ha bisogno dell’evasione e delle feste, come per il caso dei neomelodici per Falcone e Borsellino. Quando i mafiosetti dello Zen fanno cambiare programma alla festa che celebra questi giganti dell'antimafia, la gente si entusiasma, per stare dalla parte della narrazione mafiosa, quella dell’antistato. Ma chi ha organizzato la festa, il ricco analfabeta psicolabile Mannino, un prestanome in mano ai mafiosi, colui che dava i soldi alla tv di Mira, immediatamente minacciato dalla mafia, non li dà più, e finisce per chiudersi in un mutismo dovuto al conflitto. Pur sapendo di fare qualcosa di terribile, non ha affatto la forza di non farlo, e di opporsi ai potenti e ricchi malavitosi che sono gli stessi che gli hanno garantito una sopravvivenza agiata che la maggioranza si sogna, e magari con ben maggiori meriti e capacità, proprio perché questi ultimi non hanno voluto asservirsi pienamente alla delinquenza.
Terribile poi questo nesso, mai forse sottolineato ancora a sufficienza: quella delle feste e della mafia. Di certo non si può dire che l’allegria sia appannaggio della mafia. Ma non si può certo negare che una certa forma di allegria, più o meno popolare, serva ad occultare il fenomeno mafioso, come diversivo, evasione apparentemente innocente e socialmente accettabile.
Lunga è la strada perché la felicità si imponga pure nel rifiuto di tutte le sue versioni apparenti, come quelle che, per paura e quieto vivere e lazzaronaggine, spengono il cervello su questioni di capitale importanza. In Italia su ciò siamo terribilmente indietro, però.
Un gran bel cinema d'auotre, per quanto disturbante.
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