Regia di Mario Sesti vedi scheda film
Nel 1958 Alessandro Blasetti, regista di titoli apprezzati come 1860, Prima comunione e Peccato che sia una canaglia, ha la brillante idea di raccontare un documentario come sia la vita notturna nelle grandi capitali europee: da Roma a Parigi, passando per Londra e Bruxelles, mostra al pubblico come viva l’Europa di notte. La sua attenzione si concentra però sui locali notturni destinati a una clientela prettamente maschile che, in cerca di sollievo dai trambusti quotidiani e, spesso, da una vita familiare monotona, cerca distrazione nello spogliarello. Lo spogliarello è quella danza, ora sensuale ora ancestrale, con cui un corpo si libera dei suoi orpelli artificiali per mostrare il più umano dei rivestimenti, la pelle, che a sua volta sottende a tutta un’ultra dimensione sottocutanea. Secondo il semiologo Roland Barthes, il vero effetto dello striptease era quello di desessualizzare la donna, un rito che provocava l’idea del sesso, e insieme il suo esorcismo. Prima di essere un proverbiale rito di seduzione, lo spogliarello sarebbe dunque una forma di esorcismo del sesso in cui un corpo genera un appetito solo per essere devitalizzato. Se sia così o meno, è difficile capirlo dal successo che il documentario di Blasetti ottiene una volta in sala: una semplice statistica, recita che un decimo degli uomini italiani che uscirono quell’anno di sera andarono a vedere il film, facendo registrare un boom di vendite di biglietti e generando la nascita di un genere vero e proprio: il documentario erotico.
Nei mesi successivi, le sale vennero invase da opere che già dal titolo richiamavano l’esotico, il proibito, le atmosfere calde e le luci al neon. L’asticella del vietato si spingeva sempre più in alto e, con semplici filmati di repertorio provenienti da diverse parti del mondo o con spezzoni ad hoc girati appositamente nei locali da abili press agent con i contatti giusti, si realizzavano opere su opere, che mostravano l’imperfezione del corpo femminile in tutto il suo splendore. In un’epoca lontana dalle frustrazioni del #MeToo, il corpo femminile veniva osannato in tutto il suo splendore di curve, di allusioni e di movenze mai indecenti, mentre una voce narrante provava a portare il racconto su sentieri spesso impervi. Lo spettatore medio trovava nel cinema ciò che a casa più non aveva: non a caso i titoli premevano su tale pedale, incitando l’uomo ad allontanarsi dalle mogli grasse e dalle figlie brufolose per ritrovare il piacere della bellezza e della sensualità che proveniva da terre a lui lontane. Che poi si trattasse di un rito collettivo era anche meglio: in una sorta di operazione meta cinematografica, i documentari erotici mostravano anche il pubblico che accorreva a vedere gli spettacoli. Si creava così una sorta di tacita complicità tra lo spettatore in sala e quello presente al momento delle riprese, di cui si potevano scrutare reazioni e, con un po’ di fantasia, sensazioni.
L’erotico mostrato, si diceva, necessitava di divenire sempre più audace. La concorrenza aumentava e gli incassi diminuivano, spingendo i produttori a tentare ulteriori carte. Nacquero dei sottogeneri o rappresentazioni in grado di solleticare gli istinti più primitivi. Abituato alle sottane dei peplum, il pubblico si ritrovava improvvisamente ad assistere a donne in gabbia o a situazioni in cui, complici i concetti di potere e di sottomissione, si giocava con i cliché della razza o del contesto sociale. Una direttiva di Oscar Luigi Scalfaro, all’epoca al Ministero dello Spettacolo, imponeva di non mostrare mai genitali e capezzoli (con criteri che ancora oggi stanno alla base degli algoritmi di Facebook), ad esempio: tale imposizione però perdeva la sua ragione d’essere nel caso in cui in scena vi fosse una donna nera, come se il colore della pelle – per via di retaggi appartenenti all’epoca coloniale – fosse una discriminante, un’eccezione da avallare e condividere.
Ponendo le basi dell’hard moderno, il documentario erotico trovava ulteriore linfa anche nei cosiddetti fake films, ovvero pellicole che mostravano situazioni che non erano. Capitava così sovente di assistere a uno spogliarello di una fantomatica tedesca ricoperta di sole pagine di quotidiani e di accorgersi che queste appartenessero tutte a testate italiane. Con l’occhio di oggi, ci si stupisce di come, dopo quasi un secolo dalla nascita del cinema, lo spettatore apprezzasse situazioni mal recitate e mal scritte, le stesse che nella loro elementarità faranno prima la fortuna della commedia erotica all’italiana e del cinema porno successivamente. O di come fosse semplice per un regista aprirsi alla libertà introducendo una parentesi musicale: con gli anni, la musica jazz dell’inizio aveva finito con il lasciare posto al twist e ai suoi movimenti.
All’epoca, nessuno notava come i registi con le loro immagini raccontassero molto più di quello che volevano dire. Oggi, si è certi di quanto inconsapevoli fossero del reperto storico che stavano lasciando. Occorre infatti sottolineare come il documentario erotico abbia lasciato un vero e proprio trattato sull’evoluzione del corpo delle donne. Ammirando il corpo con gli occhi affamati di desiderio degli uomini ma anche con quelli curiosi di un bambino che spia dalla serratura la madre, quei documentari hanno restituito frammenti di corpi non ancora avvezzi alla chirurgia estetica, privi di qualsiasi manipolazione esterna e, soprattutto, lontani dall’idea di perfezione che la modernità ha poi imposto. Ballerine, modelle e talvolta attrici portavano in scena ciò che erano senza voler essere diverse: arrivavano sui set con le loro borse portate da casa, giravano i loro numeri e poi tornavano alla normalità delle loro esistenze.
Nel ricostruire la fortuna del documentario erotico in Mondo sexy, Mario Sesti – critico cinematografico sovente dietro la macchina da presa – si fa aiutare dagli interventi di validi critici e saggisti come Domenico Monetti e Antonio Tentori, sposa le tesi della giornalista Sabina Ambrogi (esperta nei rapporti tra media e rappresentazione delle donne) e abbraccia le spiegazioni della terapeuta Luana De Vita, che è riuscita a coniugare il burlesque con i gruppi di psico-teatro. Nel suo excursus, non dimentica di citare la visione che del nudo ha la religione, ovviamente cattolica, e di mostrarci come lo spogliarello abbia trovato, dopo gli anni in cui ha fatto la fortuna di certe trasmissioni della tv commerciale (come non pensare a Colpo grosso e alle sue ragazze Cin Cin?), nuova linfa nel burlesque, dove le donne mostrano tutta la consapevolezza che nel tempo hanno raggiunto del potere che il loro corpo ha, come ricorda con lucida analisi Albadoro Gala, apprezzata performer. Dulcis in fundo, Sesti lascia che il produttore e regista Mino Loy fornisca il suo prezioso contributo: con alle spalle oltre 105 di diversa natura e caratura, Loy ha realizzato tre documentari erotici, li ha girati ma non li ha mai visti una volta finiti. Ciò restituisce la dimensione di come venivano considerati dalla critica del periodo: un mero strumento per fare cassa.
12 sono infine i documentari di cui, filologicamente, si mostrano spezzoni e a cui si attribuisce nuovo significato, grazie anche all’accostamento di immagini, voce fuori campo, CGI e musiche: America di notte (1961), di Giuseppe Scotese; Le città proibite (1963), di Giuseppe Scotese; Le dolci notti (1962), di Vinicio Marinucci; Mondo sexy di notte (1962), di Mino Loy; 90 notti in giro per il mondo (1963), di Mino Loy; I piaceri del mondo (1963), di Vinicio Marinucci; Questo mondo proibito (1963), di Fabrizio Gabella; Sexy che scotta (1963), di Franco Macchi; Sexy proibito (1963) di Osvaldo Civirani; Supersexy 64 (1963) di Mino Loy; Tentazioni proibite (1965), di Osvaldo Civriani; e Universo di notte (1962), di Alessandro Jacovoni. Un must per le scuole di cinema.
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