Regia di Giuseppe M. Gaudino vedi scheda film
Giuseppe M. Gaudino, classe 1957, nato a Pozzuoli e diplomatosi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, già scenografo per Gianni Amelio e Mimmo Calopresti, esordio alla regia nel 1984 con Aldis, presentato a Venezia, anticipò già dieci anni prima, nel 1987, in 0567 - Appunti per un documentario su Pozzuoli, l'esplorazione del fenomeno del bradisismo nella cittadina campana, a cui si accosta nuovamente, e con esiti felici e suggestivi, in questo Giro di lune tra terra e mare. "Pozzuoli è una vecchia città, è speciale e curiosa assai: è speciale perchè è terra vulcanica e ci sta sempre 'u terremoto. E forse per questo la gente non è stata mai queta", una terra dove passarono "Nerone, sua mamma Agrippina, san Paolo, Giambattista Pergolesi 'u musicista, Virgilio, la Sibilla Cumana, Tiberio, Messalina, Marcantonio, san Gennaro", ma anche il martire cristiano Artema e Maria la Pazza, abbandonata contro i saraceni dai suoi concittadini, e dove vive pure Gennarino, uno dei figli più giovani di Don Salvatore Gioia (Aldo Bufi Landi) e Donna Mena (Tina Femiano), colui che sin dall'incipit, in cui si avvicina in macchina alla città, ci racconta le vicende della sua famiglia: i Gioia sono pescatori del golfo di Pozzuoli la cui esistenza è martoriata e disgregata dal terremoto e dalle liti familiari, perchè, per volontà del capofamiglia Salvatore, si ostinano ancora a vivere nella città vecchia, ormai abbandonata dalla popolazione a causa del bradisismo. Gaudino inscrive le vicende di ordinaria disperazione della famiglia nell'atavico conflitto di sopravvivenza tra uomo e natura e ne immerge le atmosfere più dolenti in un'incisiva commistione tra realtà e leggenda, evocando inquietanti parallelismi storici e mitici nell'evoluzione umana, giocando di contrappasso sul filo dell'indignazione e della rabbia per i soprusi del vivere civile e lasciando muovere i suoi personaggi, antichi e moderni, nella stessa identica ambientazione, di cui il piccolo Gennarino, che sogna una carriera da calciatore e ha già fatto un provino per il Napoli, esplora gli anfratti più oscuri e selvaggi, un territorio in cui scorge il matricidio di Agrippina o il parto della Sibilla Cumana, convinta di avere in grembo il messia, o, ancora, la morte di Artema, ucciso dai suoi stessi compagni. Un'opera affascinante e rigorosa nella trasfigurazione drammaturgica e visionaria che sospende la narrazione tra passato e presente, tra le depravazioni mitiche della Storia e le tormentate vicissitudini della quotidianità, tra iperrealismo e rarefazione onirica, astrazione metaforica e dramma nudo e crudo, di cui la raggelante sequenza del terremoto ne è un magistrale compendio stilistico, tra fotografia sgranata ed immagini accelerate, dialoghi in latino, viraggi della pellicola e dissolvenze, che donano al film un inquietante (e straniante) fascino visivo, e che raggiunge la sua vena poetica più intima e sofferta proprio nella raffinatezza stilistica degli scarti temporali della narrazione in cui Gaudino lascia deflagrare i toni dell'indignazione civile. Uomini strappati alle radici della propria terra, lo squallore del degrado urbano, con i fuochi della festa paesana a contrappuntarne il disfacimento sociale, la conflittualità edipica della tragedia greca nelle evoluzioni dei rapporti familiari ("Non so' figli, so' magnapane a tradimento"), ombre, luci, tramonti, il rumore delle onde del mare: Gaudino, coadiuvato dalle sceneggiatrici Isabella Sandri e Heidrun Schleef, compone magicamente un affresco dimesso e agghiacciante, tratteggiato con ricchezza di sfumature e rara sensibilità, che esplodono sullo schermo nel tripudio di incanti visivi di una messinscena sontuosa ed elegante, dalla fotografia magistrale di Tarek Ben Abdallah alla straordinaria colonna sonora firmata dagli Epsilon Indi e al montaggio curato dallo stesso Gaudino insieme a Roberto Perpignani. Presentato con successo al Festival di Venezia, uscì nelle sale con una ventina di minuti di tagli rispetto alla versione iniziale.
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