Regia di Michele Placido vedi scheda film
L’elemento evidentemente più bello di Del perduto amore è la scelta del cinemascope (la fotografia, livida e brulla, è di Blasco Giurato), che fa assumere al film connotati quasi epici, collegandosi idealmente ad una cinematografia lontana. Michele Placido sa di cosa parla perché la storia è ambientata nel suo meridione in un’epoca (la fine degli anni cinquanta) in cui aveva l’età del giovane protagonista e si è fatto assistere da Domenico Starnone per mettere su questo racconto di formazione cupo ed intenso con al centro due temi fondamentali: l’amore e la politica. L’amore è idealizzato nella maestra (e la possibilità della perdita della verginità è evitata con durezza dallo stesso protagonista), la quale si è candidata alle elezioni nelle file comuniste.
La bandiera rossa non è ben vista e gli arretrati paesani fan di tutto per emarginarli, mentre la battagliera Liliana fonda una scuola malvista dai potentati democristiani. L’amore viene meno quando il protagonista scopre che Liliana non è una santa e se la fa con il medico condotto. Placido attinge ad un universo cinematografico sterminato che ha speculato alla grande sull’argomento e riesce a trovare una sua dimensione nel racconto della realtà del paese (il fascistello antipatico di Sergio Rubini, il prete molto demo e poco cristiano di Rino Cassano, il democristiano bigotto di Rocco Papaleo) e nel ritratto del padre chiuso e sensibile (un finissimo Fabrizio Bentivoglio). Giovanna Mezzogiorno è lo splendido soggetto del desiderio, esemplare nel tratteggiare la sua fiera e sofferta Liliana con fatal destino.
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