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Del perduto amore

Regia di Michele Placido vedi scheda film

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La recensione su Del perduto amore

di Aquilant
8 stelle

Liliana è la maestrina del paese, osteggiata dalla gente per la sua fede comunista, ma in realtà tutt’altro che avvezza a mangiare i bambini. Interpretata da una commovente Giovanna Mezzogiorno, ama viaggiare in Lambretta muovendosi tra le atmosfere bigotte dell’epoca, inserita in un tessuto connettivo costituito da gente che ha dimenticato la vera essenza del Cristianesimo, ignorando che essere cattolici vuol dire non tanto votare scudo crociato bensì tendere una mano, anzi due, ad un’umanità sofferente. Gente in preda a preconcetti ideologici, che si dice religiosa ma in realtà è sempre pronta a sbattere porte e finestre in faccia al prossimo. Liliana invece ha idee di sinistra, deleterie per la mentalità della sua epoca (forse anche per la nostra), ma sa come giungere al cuore della povera gente, avverte l’esigenza di dare una mano ai poveri, sa essere misericordiosa ed incline ad addossarsi le “mazzate” altrui. Perennemente pronta a tendere una mano anche ai nemici, in contrapposizione con certi ambienti destrorsi descritti molto bene nel film ed ancora aggrappati a vecchie regole di regime e ad arroganze totalitariste, totalmente sprezzanti della privacy e della dignità altrui, sempre inclini a fornire un (buon) esempio ai giovani conducendoli a più riprese sulla strada della depravazione. In aperto contrasto con la cieca ideologia del suo partito che non la comprende e la considera una perditempo, si batte per il miglioramento della condizione della donna anche a costo della sua vita, fino all’ultimo respiro. Eroina d’altri tempi, novella Giovanna D’arco laica che accetta indomitamente qualsiasi sfida in nome di una libertà idealizzata da conquistarsi a qualsiasi prezzo ed al rischio di perdere alla fine la partita con la vita. Per lei la politica è una cosa pulita, è abnegazione, è attenzione verso i giovani, è una mano tesa nei confronti della gente, concetti questi oggigiorno totalmente affogati nell’utopia, tragicamente naufragati in uno scambio di veleni fra parti avverse senza la minima esclusione di colpi. Rifiutandosi di concedere alcunché al sensazionalismo, il regista tende a presentarci un vibrante affresco sull’esasperazione dei sentimenti, con un quadro complessivo esacerbato da una contrapposizione politica influenzata più da pregiudizi di carattere etico che da ideologie di sorta, peraltro quasi completamente assenti in un’epoca ancora intenta a leccarsi le ferite della guerra. I personaggi sono caratterizzati a tutto tondo, senza mezzi toni, in una sorta di netta separazione tra buoni e cattivi non necessariamente coincidente con quanto suggerito dal normale senso comune. La figura di Liliana, ad esempio, apparentemente destabilizzante, non appare come quella di un’adepta del materialismo storico ma come una cristiana praticante, capace di amare il prossimo come sé stessa e molto più vicina al messaggio evangelico rispetto allo scostante sacerdote del paese, che nella sua cieca determinazione di “non accettare la martire in terra consacrata” ci appare come il portabandiera di un fondamentalismo cattolico da condannare indiscriminatamente. In questa impietosa vicenda appare evidente lo sbilanciamento al servizio di un’unica tesi che non tiene conto del fatto che la realtà è dotata di innumerevoli sfaccettature rispetto a storie costruite a tavolino con l’occhio deformante d’una realtà che marcia a senso unico. Non esente da difetti, il film comunque la dice molto lunga su certe strumentalizzazioni politiche che ancora oggi stanno vivendo un ennesimo momento di gloria. Merito del regista è comunque quello di aver dato vita ad una protagonista viva, palpitante, carica d’umanità, divinamente interpretata da Giovanna Mezzogiorno, capace di bucare lo schermo ed indurre a commozione perfino gli animi più induriti e poco inclini alla lacrima facile, con un’interpretazione indimenticabile come solamente le grandi interpreti sono in grado di offrirci.

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