Regia di Ascanio Petrini vedi scheda film
Pasquale Donatone, chiamato da tutti Tony, viveva in America da quarant’anni. Negli Stati Uniti, inseguendo il mito americano e scappando dalla povertà pugliese, era arrivato a soli nove anni, nel lontano 1972. All’indomani del boom economico, dal sud i suoi genitori erano partiti come tanti altri italiani alla ricerca di un futuro diverso per i loro figli Pasquale e Maria. Cresciuto, Pasquale ha studiato, ha trovato moglie, ha un lavoro ed è divenuto pure padre di due figli, ma ha dimenticato un particolare di non poco conto: non ha mai richiesto la cittadinanza americana. Non che se ne preoccupasse più di tanto: la sua American life non gli destava preoccupazioni fino al giorno in cui la moglie Susan, con cui non andava più d’accordo dopo la nascita del secondo figlio, non decide di prendere le sue cose e andarsene via.
Rimasto solo, Tony ha dovuto reinventarsi. Ha allora preso l’ultimo treno per Yuma, trasferendosi nella cittadina di frontiera dell’Arizona. Sfruttando la sua licenza di guida, è divenuto un driver, un autista di taxi, ma per racimolare qualche soldo in più, oltre ai normali passeggeri, ha cominciato a trasportare messicani che clandestinamente oltrepassavano la frontiera. Per qualche tempo, gli è andata anche bene ma, in piena epoca trumpiana, non è facile trovare vie di fuga alle deliranti politiche sull’immigrazione volute dal tycoon. Nel giro di pochi attimi, nel 2012 Tony ha visto nuovamente la sua vita cambiata, capovolta, sottosopra finita. Arrestato e portato in carcere, piuttosto che presentarsi davanti al giudice per il processo, ha scelto la via più breve garantita dal sistema giudiziario americano ai non cittadini: la deportazione.
Rientrato giocoforza in Italia, si è stabilito a Polignano a Mare, dove ha vissuto all’interno di una roulotte, si è guadagnato da vivere affiggendo manifesti, ha contato sul sostegno di don Gaetano e ha coltivato l’utopia di rientrare a casa grazie a qualche possibile grazia. La pena prevista sarebbe di 10 anni ma, dopo averne scontati 5, Tony non ha più la forza di resistere. L’Italia, dove è concretamente nato, non è più il Paese che lo rappresenta: la sua identità è oramai americana. O, meglio, è ibrida. Tony non è né italiano né americano ma è il frutto sociologico di una generazione di immigrati che, pur conservando l’italianità e l’arte di arrangiarsi nel sangue, ha abbracciato un modus vivendi fatto di bandiere a stelle e strisce, partite di baseball e succulente cene a base di pollo fritto. Lo si evince anche da come parla: pochissimo italiano, molto dialetto pugliese e un americano di cui ha piena padronanza.
Chi è dunque Tony diventa allora il fulcro centrale di Tony Driver, commistione di documentario, fiction e sperimentazione, diretta dal quarantenne barese Ascanio Petrini. E l’analisi di chi sia Pasquale emerge in tutta la sua forza nella seconda parte del (breve) lungometraggio, quando con la complicità del sacerdote, il deportato mette in atto un ardito piano: raggiungere il Messico per fregare Trump, attraversando la frontiera. Chi meglio di lui che aiutava i clandestini, del resto, può conoscere i varchi più accessibili del muro?
Le telecamere di Petrini, dopo aver giocato con la ricostruzione del passato di Tony (esemplare è la sequenza di apertura che diventa, con la sua messa in scena spartana alternata alla fantasia pindarica del protagonista, una sorta di piccola metafiction all’interno del documentario), seguono l’imprevedibile Tony nella sua personalissima odissea. Come un Ulisse del Terzo Millennio, Tony deve rientrare a Itaca ma per farlo deve affrontare moderni proci e trovare il suo personalissimo cavallo di Troia. Da autista a passeggero, il suo ruolo si ribalta: da traghettatore diviene traghettato, in un viaggio che sembra quasi chimerico ma mai privo di speranza. Il sogno americano si è sempre fondato sulla speranza di un domani migliore o sulla ripartenza.
Gioca con il mito della frontiera il regista. Tony è il cowboy del XXI secolo, quello che deve riconquistare il suo pezzo di west rubato dallo sceriffo cattivo. Un tempo guidatore di un calesse che trasportava fuorilegge, non ha vinto alcuna taglia ma è finito semmai deportato (altro termine che, involontariamente o meno, riporta al contesto leoniano) in una terra che fatica a riconoscere e il cui odore, privo di cactus e sabbia, non gli appartiene. Per riprendersi il suo pugno di dollari, dovrà affidarsi alla sua rete di conoscenze (Facebook, in primis), rimettersi nelle mani di un prete che ai crocefissi preferisce i destrieri (alati) e passare attraverso le spire di un saloon con la sua “procace” avventrice. E non importa poi cosa riserva il confine: conta, come per un Don Chisciotte ingenuo e folle, attraversarlo, correndo verso l’infinito e oltre.
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