Regia di Marie Grahtø vedi scheda film
L'opera prima di Marie Gratho non potrebbe essere più pretenziosa. Accumulando scelte estetiche scontate sotto il segno di una pseudo-avanguardia che sfonda porte aperte un po' ovunque - dissolvenze, ralenti, voice over, sdoppiamenti - questo piccolo film danese scomoda giganti del contemporaneo (e non) per fare un discorso piccolo piccolo, degno di uno dei più grossi fallimenti di Martin Scorsese, Shutter Island. La follia che genera follia, che porta lo spettatore a reinterpretare la scipita narrazione, rivedendo ruoli e relazioni fra i personaggi. Tutto ovviamente prevedibilissimo.
Se come si diceva ad essere scomodati sono tanti nomi (dal Suspiria di Guadagnino a The Neon Demon di Refn, passando per Raw della Ducorneau), quello più scomodato e soprattutto mal interpretato è Ingmar Bergman. Psykosia praticamente è la sistematica trasformazione delle visioni di Bergman in aneddotiche trovate indie. Dai primi piani "doppi" di Persona agli ambienti ospedalieri di Alle soglie della vita, Bergman diventa sollazzo un po' infantile, ingenua solennità di ripresa, insomma roba per cui è difficile essere indulgenti. Cose che semplificano enormemente l'opus di un regista che si capisce è stato visto e rivisto dalla Gratho ma del tutto semplificato per produrre suggestioni già viste, ridondanti e superflue. Il film di Bergman però più "violentato" è Vanità e affanni: non solo per l'ambientazione del manicomio, ma per il riutilizzo posticcio del Der Leiermanne di Schubert. Un furto in piena regola, più che una citazione, qualcosa che porta alla bocciatura completa di un film dimenticabile.
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